GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 200-398)
P.e.[200]alcuni
difettuzzi in un viso, piacciono assai, e paiono grazie a molti. Chi s’innamora
di un naso rincagnato (come quel Sultano di Marmontel), chi di un occhio un po’
falso ec. Un parlar bleso ec. a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno,
amori nati appunto da stranezze o difetti della persona amata. Così nello
spirito e nel morale. Il primo amore dell’Alfieri fu per una giovane di una
certa protervia che mi faceva, dic’egli, moltissima forza. E di
questo genere si potrebbero annoverare infinite cose che paiono graziosissime e
destano fiamma in questo o in quello, e ad altri parranno tutto il contrario.
Così un viso di quel genere che chiamano piccante, vale a dire
imperfetto, e irregolare, fa ordinariamente più fortuna di un viso regolare e
perfetto. Par cosa riconosciuta che la grazia appartenga piuttosto al piccolo
che al grande, e che se al grande conviene la maestà, la bellezza, la forza ec.
la grazia e la vivacità non gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa, e
astrattamente parlando, uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un
piccolin si mette Di buona grazia in tutto dice il Frugoni. Ed è cosa
ordinaria di chiamar graziosa una persona piccola, e spesso in maniera come se
piccolezza fosse sinonimo di grazia. 5. Da queste cose deducete che in somma la
definizione della grazia non si può dare, e Montesquieu non l’ha data, benchè
paia crederlo, e bisogna sempre ricorrere al non so che. Perchè 1. se la
sorpresa è spesso compagna della grazia, è certo che questa è ben diversa dalla
sorpresa, cioè perchè una cosa sia graziosa, non basta che sorprenda, bisogna
che sia di quel tal genere, [201]e questo genere che cos’è? 2. non la
sola naturalezza, come abbiamo veduto; non il perfetto, anzi spesso il
difettoso, l’irregolare, e lo straordinario; non tutto l’imperfetto, l’irregolare,
e lo straordinario, com’è manifesto: che cosa dunque? 3. Concedo che spesso il
sentimento della grazia contenga sorpresa, ma non è grazioso per questo che
sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso, ma perch’è un
certo non so che. 4. Quel modo in cui Montesquieu spiega questo non so che
nelle parole riportate di sopra, non sussiste se non in alcuni casi. Un viso
piccante ed irregolare nous plaît veramente d’abord e senz’altro,
e qui non c’entra l’aver saputo vincere il difetto ec. Si vede ch’esso stesso
contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da tutto il resto. È
vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma quel che piace non
è solamente nè principalmente la sorpresa, altrimenti un viso mostruoso piacerebbe
di più. Applicate queste considerazioni agli altri esempi riportati di sopra,
in tutti i quali non ha che far niente il dare più di quello che si prometta, o
non è la cagion principale ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto
estrinseca e accidentale. 5. Il grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno
sì, a un altro no ec. L’esperienza lo mostra, che come non c’è tipo della
bellezza, così neanche della grazia. E quantunque paia che l’idea della
naturalezza debba essere universale, tuttavia non è, e presso noi passano per
naturali infinite cose che sono tutt’altro, e ai villani parranno naturali e
graziose cento maniere che a noi parranno grossolane ec. Così secondo le
diverse nazioni costumi abitudini opinioni ec. Non che la natura non abbia le
sue maniere [202]proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel
bello. Un cavallo scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura,
una donna coi pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata
ec. eppur piacciono. Molto più discordano i gusti intorno alla grazia
indipendente dalla naturalezza. 6. Quantunque questo non so che, non si possa
definire, se ne possono notare alcune qualità 1mo Spessissimo la
semplicità è fonte, o proprietà della grazia. 2do. Quantunque la
grazia ordinarissimamente consista nell’azione, tuttavia può stare qualche
volta anche senza questa, come appunto molte grazie derivanti dalla semplicità,
p.e. nelle opere di belle arti, nell’abito di una pastorella, citato anche da
Montesquieu come grazioso, insieme colle pitture di Raffaello e Correggio.
Anche un viso piccante ma non bello, si può dire che contenga questo non so
che, e punga, senza bisogno di azione, come p.e. veduto in un ritratto,
quantunque d’ordinario prenda risalto dal movimento. 3zo. La naturalezza
non è la sola fonte della grazia, e pure non c’è grazia, dove c’è affettazione.
Il fatto è che quantunque una cosa non sia graziosa per questo ch’è naturale,
tuttavia non può esser graziosa se non è, o non par naturale, e il minimo segno
di stento, o di volontà, ec. ec. basta per ispegnere ogni grazia. Dico, se non
pare, perchè le grazie della poesia, del discorso, delle arti ec. per lo più
paiono naturali e non sono. 4to La piccolezza abbiamo veduto come
abbia che far colla grazia. 5to Lo svelto, il leggero, parimente ha
che far colla grazia. E notate che i movimenti molli e leggeri di una persona
di taglio svelto, sono graziosi senza sorpresa, giacchè non è strano che i moti
di una tal persona sieno facili e leggeri. Bensì muovono una certa maraviglia o
ammirazione [203]diversa dalla sorpresa, la quale nasce dall’inaspettato,
o dall’aspettazione del contrario. Così la maraviglia prodotta dalle belle
arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far colla grazia. 6to L’effetto
della grazia ordinariamente è quello che ho detto, di scuotere e solleticare e
pungere, puntura che spesso arriva dirittamente al cuore, come se tu vedi due
occhi furbi di una donna rivolti sopra di te, nel qual caso la scossa si può
paragonare anche all’elettrica. Ma in quella grazia che spetta p.e. alla
semplicità pare che se l’effetto è di solleticare, non sia di pungere, e forse
si può fare su questa considerazione una distinzione di due grazie, l’una
piccante, l’altra molle, insinuante, glissante dolcemente nell’anima. E
forse la prima si chiama più propriamente il non so che. 7mo La
vivacità ha che far colla prima specie di grazia. Ma con tutto ciò la vivacità
non è grazia. 8vo Nei cibi parimente si dà una certa grazia, ora
della prima, ora anche della seconda specie. Quelli che chiamano ragoûts
appartengono alla prima. E qui pure discordano i gusti infinitamente.
In somma
non saprei che dire. Si potrebbe conchiudere che la grazia consiste in un certo
irritamento nelle cose che appartengono al bello e al piacere. Così si verrebbe
ad escludere un viso mostruoso ec. e dall’altra parte, il piacere troppo
spiccato e sfacciato, come quello della bellezza, dei godimenti corporali, del
desiderio soddisfatto; potendo la grazia chiamarsi piuttosto uno
stuzzica-appetito, che una soddisfazione di esso.
L’affettazione
nuoce anche alla maraviglia, capital cagione del diletto nelle arti.
Primieramente il conoscere il proposito toglie [204]la sorpresa. Poi, e
questo è il principale, non vedi somma difficoltà in una figura
somigliantissima al vero, ma stentata. Oltre che lo stento detrae al vero,
perchè non appartiene al vero se non la naturalezza, non è maraviglia, che con
fatica ti sia riuscito, quello che volevi. E non è maraviglia che tu facci una
cosa volendo, come che tu la facci, senza che gli altri si accorgono che tu l’abbi
voluto. E non è difficile il fare una cosa difficile, difficilmente, ma in modo
che paia facile. Così c’è il contrasto fra la nota difficoltà della cosa, e l’apparente
difficoltà del modo. L’affettazione toglie il contrasto ec. ec. V. se vuoi
Montesquieu, Essai sur le goût. Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.396-397.
In
proposito di quello che ho detto p.197. io so di una donna desiderosa di
concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida e io
no. L’invidia e l’odio altrui per le felicità che hanno, cade ordinariamente
sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de’ quali
vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli altri
beni non è cosa ordinaria l’invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del resto
quantunque l’invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali solamente
sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di questa
passione può condurre all’invidia e all’odio anche delle altre cose.
Tutti i
caratteri principali dello spirito antico, che si trovano in Omero, e negli
altri greci e latini, si trovano anche [205]in Ossian, e nella sua
nazione. Lo stesso pregio del vigor del corpo, della giovanezza, del coraggio,
di tutte le doti corporali. La stessa divinizzazione della bellezza. Lo stesso
entusiasmo per la gloria e per la patria. In somma tutti i beati distintivi di
una civilizzazione che sta nel suo vero punto fra la natura e la ragione. Del
resto, pietà filiale, e paterna, e tutti gli altri sentimenti doverosi e
naturali, hanno fra i caledoni tutta la loro forza. Il divario tra i greci ed
Ossian consiste principalmente in una malinconia generata dalle disgrazie
particolari, e non dalla disperante filosofia, ma più propriamente e
generalmente dal clima. Questa cagione non solo si conosce ma si sente nell’Ossian,
e perciò rende la sua malinconia molto inferiore a quella dei meridionali,
Petrarca, Virgilio, ec. nei quali si conosce e sente anche una potenza di
allegria, come pure in Omero ec. cosa necessaria alla varietà, all’ampiezza
della poesia composta di diversissimi generi, e quasi anche al sentimento.
Ossian
prevedeva il deterioramento degli uomini e della sua nazione. V. Cesarotti
osservazione ultima al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli
diceva ec. (v. gli ultimi versi d’esso poemetto) non prevedeva che la
generazione degl’imbelli si dovesse chiamar civile, e barbara la sua, e le
altre che la somigliarono.
Oste albergatore, ed anche ospite,
ossia albergato, appresso gli antichi italiani. V. la Crusca. Hostis
aveva appunto questa seconda significazione appresso gli antichi latini. V. il
Forcellini. [206]Ed ecco una parola latina disusata ai tempi di
Cicerone, ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì, e come hospes
ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso doppio senso di
albergatore e albergato.
(10. Agosto 1820.)
Straniero ossia ospite si prendeva
per nemico anche nell’antica lingua celtica. V. Cesarotti note al
Fingal, Canto primo. Bassano 1789. t.1. p.17. E così appoco appoco si sarà
cambiato il significato di hostis, cioè considerando lo straniero come
nemico.
Cleobulo, dice Diog. Laerz, suneboæleue...
gunaikÜ (uxori) m¯
filofroneÝsJai mhd¢
m‹xesJai, ŽllotrÛvn
parñntvn : tò m¢n gŒr noi-an, tò d¢ manÛan shmaÛnei. V. p.233.
Il medesimo, m¯
¤pigel˜n toÝw skvptom¡noiw : ŽpexJ®sesJai gŒr toætoiw..
In proposito di quello
che ho detto p.68. nel pensiero, Guardate, Chilone, dice il Laerz. pros¡tatte...
l¡gonta m¯ kineÝn t¯n xeÝra : manikòn. V. la nota d'Is. Casaubono al Laerz. Vit. Polemon.
l.4. segm.16.
La grazia propriamente non ha
luogo se non nei piaceri che appartengono al bello. Una novità, un racconto
curioso, una nuova piccante, tutto quello che punge o muove o solletica la
curiosità, sono irritamenti piacevoli ma non hanno che far colla grazia. E
quelli che appartengono ai cibi, o a qualunque altro piacere parimente,
somigliano alla grazia, e possono esserne esempi, ma non confondersi con lei.
Perciò la grazia va definita semplicemente, un irritamento nelle cose che
appartengono al bello, tanto sensibile, quanto intellettuale, come il bello
poetico ec.
[207]Le grazie della lingua sono più che
mai relative a quelle persone che la intendono perfettamente ec. e non mai
assolute. Così le grazie attiche, toscane ec. forse più graziose per gli altri
italiani che per gli stessi toscani, a cagione di una certa sorpresa ec. ma
poco o nulla agli stranieri.
Oggidì è
cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al
di fuori per un volto o un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo
esilissimo e sparutissimo e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes,
Pascal. Tant’è: la grandezza appartenente all’ingegno non si può ottenere
oggidì senza una continua azione logoratrice dell’anima sopra il corpo, della
lama sopra il fodero. Non così anticamente, dove il genio e la grandezza era
più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a svilupparsi, oltre la minor
forza della distruttrice cognizione del vero inseparabile oggidì dai grandi
talenti, e il maggior esercizio del corpo riputato cosa nobile e necessaria, e
come tale usato anche dalle persone di gran genio, come Socrate ec. E Chilone
uno de’ sette savi non credeva alieno dalla sapienza il consigliare come
faceva, eï tò sÇma ŽskeÝn (Laerz.), e questo consiglio si trova registrato fra i
documenti della sua sapienza. In particolare poi quanto alla politica, oggidì l’uomo
di stato si può dir che sia come l’uomo di lettere, sempre occupato alle
insaluberrime fatiche del gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava
agli affari civili, e nella sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo
cogli esercizi la milizia ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo
stesso esercizio della politica era pieno di azione corporale, trattandosi di
agire col popolo, clienti, impegni ec. ec. Così anche la vita di qualunque
altro uomo di genio era sempre piena di azione nell’esercizio stesso delle sue
facoltà. [208]Esempio ne può essere Omero, secondo quello che si
racconta della sua vita, viaggi ec. Di Cicerone che tanto incredibilmente
affaticò la mente e la penna, e che nacque di quell’ingegno e natura unica che
ognun sa, niun dice che fosse di corpo, non che infermiccio, ma gracile, le
quali qualità oggi s’hanno per segni caratteristici, e condizioni
indispensabili de’ talenti non pur sommi ma notabili, e massime di chi avesse
coltivato e occupato tanto la mente negli studi letterari e nello scrivere,
come Cicerone anzi per una metà. Quel che dico di Cicerone può dirsi di
Platone, e di quasi tutti i grandissimi ingegni e laboriosissimi letterati e
scrittori antichi. V. però Plutarco Vita di Cic.
La
grazia appena io credo che possa esser concepita dai francesi con idea vera.
Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa pienamente Thomas Essai
sur les Éloges ch.9. Infatti manca loro cette sensibilité tendre et pure,
cioè inaffettata e naturale (l’avrebbero per natura, ma la società non vuole
che la conservino: l’avevano i loro antichi scrittori) e cet instrument
facile et souple vale a dire una lingua come la greca e l’italiana. V.
senza fallo quel passo di Thomas.
Non
solamente il bello ma forse la massima parte delle cose e delle verità che noi
crediamo assolute e generali, sono relative e particolari. L’assuefazione è una
seconda natura, e s’introduce quasi insensibilmente, e porta o distrugge delle
qualità innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto di
non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e
immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e delle
circostanze accidentali e arbitrarie. Aggiungete all’assuefazione, le opinioni
i climi i temperamenti corporali o spirituali, e persuadetevi che molto ma
molto poche verità sono assolute e inerenti al sistema delle cose. Oltre all’indipendenza
da queste verità che può trovarsi in altri sistemi di cose.
(13. Agosto 1820.)
In somma
dal detto qui sopra e da mille altre [209]cose che si potrebbero dire,
si deduce quanto giustamente i moderni ideologisti abbiano abolite le idee
innate. Archelao diceva secondo Diogene Laerzio che tò dÛkaion kaÜ tò aÞsxròn non è determinato dalla natura ma
dalla legge. E così la legge naturale ancora potrà esser considerata come un
sogno. Abbiamo si può dire innata l’idea astratta della convenienza, ma
quali cose si convengano in morale, appartiene alle idee relative. Considerate
la morale dei diversi popoli, massimamente barbari. E mettetevi nello stato
primitivo dell’uomo. Vedrete che il far male agli altri per vostro bene non vi
ripugna. Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come
credete. L’uomo solitario e selvaggio fa mondo da se, e il suo simile è come un’altra
fiera del bosco. Bensì l’uomo è naturalmente più inclinato al suo simile, come
rispettivamente le altre bestie. Ma anche il leone combatte col leone, e il
toro col toro per li suoi diletti e vantaggi. Ho detto p.178. che la natura ha
poste negli esseri diverse qualità che si sviluppano o no, secondo le
circostanze. P.e. la facoltà di compatire. In natura è molto meno operosa. Ma
non è già propria del solo uomo. In casa mia v’era un cane che da un balcone
gittava del pane a un altro cane sulla strada. V. quello che racconta il
Magalotti di una cagna nelle Lettere sull’Ateismo. In natura si ristringe a
quegli esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli coi loro
figliuolini, vedendoseli rapire ec. Se vedranno un [210]altro uccello
della specie loro, travagliato o moribondo, non se ne daranno pensiero. Secondo
lo sviluppo delle diverse qualità per le diverse circostanze, è nata la legge
detta naturale. Il rubare l’altrui non ripugna assolutamente alla natura.
Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle moderne. La società
non è già propria del solo uomo. Le formiche la fanno per trasportar pesi. Le
api hanno anche un governo. In somma considerando la natura dell’uomo e delle
cose, si vedrà che tolte alcune idee astratte e indeterminate, ossia non
applicate, ma da applicarsi, tutto il resto è relativo, e dipende dalle
circostanze, e che negli altri esseri come nell’uomo ci sono diverse qualità
ingenite che sviluppandosi o no, ci fanno poi giudicare vanamente della
somiglianza assoluta della nostra razza colle altre.
Diciamo
male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfanno i desideri,
conseguito che abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono ed
abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare. E tutto
quello che si guadagna conseguito l’oggetto desiderato, è di conoscerlo
intieramente.
(14. Agosto 1820.)
Come l’amore
così l’odio si rivolge principalmente sopra i nostri simili, nè si desidera mai
così intensamente la vendetta di una bestia come di un nemico. E notate: quando
altri ci abbia fatto del male non volendo, tuttavia il risentimento che [211]ne
proviamo è maggiore che per una bestia la quale volendo ci abbia fatto un
maggior male.
Alla
p.196. capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella che vede
strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di quello
che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. V. Virg. Georg. 4. Qualis
populea moerens philomela sub umbra ec.
È
curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo per aver
troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per
regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del
dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi
pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla); e che frattanto gli
stranieri massimamente non sieno mai così contenti come quando hanno inzeppato
le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche, di
psicologia, d’ideologia, di storia naturale, di scienza, di viaggi, di
geografia, di politica, e d’erudizione, scienza, arte, mestiero d’ogni sorta. E
mentre non vogliono l’erudizione antica, lodano e abusano vituperosamente della
moderna.
A
proposito di quello che ho detto p.152. pens. ult. notate che l’immaginazione
dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma l’una, cioè la
fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi in un’idea,
così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia
occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio non
solo pel poco intelletto, ma perchè son pieni di distrazioni. [212]Giacchè
la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per
attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d’immaginazione destinata a
grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità della
quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o
dolorosa, e li tormenta nella stessa fanciullezza, com’è accaduto a me. Ed è
notabile come questa profondità della immaginazione li renda gelosissimi del
metodo e del consueto, fuor del quale non trovano pace, spaventandosi dello
straordinario, e contando per disgrazia insopportabile l’aver tralasciato di
fare una cosa loro solita ec. Es. di Pietrino, e mio. Del resto l’effetto della
immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p.172. fine.
Domandava
una donna (un cortigiano) a un viaggiatore, avendogli a dire una cosa poco
piacevole; volete ch’io vi parli sinceramente? Rispose il viaggiatore, anzi ve
ne prego. Noi altri viaggiatori cerchiamo le rarità.
La
soprabbondanza della immaginazione è quella che tormenta i fanciulli detti qui
sopra, e perciò in luogo di cercarla nello straordinario, cercano di spegnerla
o addormentarla col metodo. Cosa che accade anche agli uomini. V. il carattere
di Lord Nelvil nella Corinna.
(16. Agosto 1820.)
L’irritamento
della grazia è piacevole come un irritamento corporale nel gusto nel tatto, ec.
E come una maggiore irritabilità e dilicatezza del palato, fibre [213]ec.
rende più suscettibili e di più fino discernimento rispetto a questi
irritamenti corporali, così nella grazia riguardo allo spirito. V. se vuoi
Montesquieu l. più volte cit. De la délicatesse. Che se l’effetto rispettivo
della grazia de’ due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è
la sola grazia, come non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia
irrita allora una parte sensibilissima dell’uomo, che è l’inclinazione
scambievole all’uno de’ due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti
che la grazia per se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, quando anche
fosse in molto maggior grado. Così nella pittura farà molto più effetto la
grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella
di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri simili
viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo oggetto. Lo
stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito, o di un
edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione in cui
noi prendiamo quell’oggetto, cioè di opera umana, e perciò forse più efficace
in noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia del bello.
Le
illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia
restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E
non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una
volta, nè si perdono in modo che non ne resti [214]una radice
vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta
l’esperienza, e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime,
espertissime, piene di cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime,
perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico bene, e augurarla
ancora come tale, agli amici loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia
riconciliarsi colla vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni
vantaggi temporali di quegli stessi loro amici ec. Nè poteva più essere per
ignoranza o non persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose. Ed a
me pure è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente per non
poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla
vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e
quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la
disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch’io
riprendeva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi,
bastava all’effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono nel
tempo della sventura, (e perciò è verissimo, e l’ho provato anch’io, che
chi non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si
può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella
vita.) e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall’assuefazione.
Ritornano con più o meno forza secondo le circostanze, il carattere, il
temperamento corporale, e le qualità spirituali tanto ingenite come acquisite.
Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la
disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno cavato i colori dal
proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale [215]essi stessi appresso a
poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione passata, con tutto
che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di quelle acerbe verità
e passioni che esprimevano, anzi dovessero proccurarsene attualmente una
intiera persuasione ec. per potere rappresentare efficacemente quello stato
dell’uomo, e per conseguenza sentissero ed avessero quasi per le mani il nulla
delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento stesso di questo nulla per
mendicar gloria, e quanto più era vivo in loro il sentimento della vanità delle
illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine
illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito, e vivamente espresso,
non cercavano altro che di proccurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti
i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura e
ch’essendo privi d’illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro
libro che di crearsi, e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita (v. Cic.
pro Archia c.11.) Tant’è: la natura è così smisuratamente più forte della
ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni credere, pure gli
resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo negli stessi seguaci
suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la divulgano; anzi con
questo stesso predicare e divulgar la ragione contro la natura, la danno vinta
alla natura sopra la ragione. [216]L’uomo non vive d’altro che di
religione o d’illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: Tolta
la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla
prima facoltà di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d’altro
che d’illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza
nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e
sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della
ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non
c’è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione
degli uomini, dell’incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la
quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall’altra
parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d’illusione, e della
mortificazione reale, uniformità, inattività, nullità ec. di tutta la vita. Le
quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e
le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente
e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno
altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro.
Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale
sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni [217]e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni.
Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento
smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i
nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno
posteri.
Ripetono
tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al suo genio.
Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi gusti del suo
paese. I francesi che scrivono sempre come conversano, timidissimi per
conseguenza, o piuttosto codardi, come dev’esser quella nazione presso cui un
tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione, e fa più
romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d’ogni minimo ardire,
e stimano sforzi da Ercole quelli che in Italia e nel resto d’Europa sono
soltanto deboli argomenti d’ingegno robusto, libero, inventore e originale. E
per una parte hanno ragione, perchè l’osar poco in Francia, dove la regola è di vivre et faire comme tout monde, costa assai più che l’osar molto
altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa
robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che
appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il [218]sentimento ch’io
provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un movimento forte,
sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per seguitarlo, trovo che
non c’è da far altro, e ch’egli è già tornato a parler comme tout le monde.
Cosa che produce una grande pena e disgusto e secchezza nella lettura. Questo
non ha che fare colle inuguaglianze proprie dei grandi geni. Nessun genio si
ferma così presto come Bossuet. Si vede propriamente ch’egli è come incatenato,
e fa sforzi più penosi che grandiosi per liberarsi. E il lettore prova appunto
questo medesimo stato. E perciò volendo convenire che Bossuet sia stato
veramente un genio, bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la
sua nazione, n’è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani.
Se non che la voce di tutta la Francia ha tanta forza, che forma il giudizio d’Europa.
E il ridirsi è quasi impossibile. Sicchè queste parole intorno a Bossuet sieno
dette inutilmente.
Non è
cosa così dispiacevole come il vedere uno scrittore dopo intrapreso un gran
movimento, immagine, sublimità ec. mancar come di fiato. È cosa che in certo
modo rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si vede che vorrebbe esser
grande, bello ec. nello scrivere, e non può. Ma questa è più ridicola, quella
più penosa. In Bossuet l’incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che
seguiterà l’impulso, ma è già finito. Quando anche [219]il seguito del
suo parlare sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma artifiziale, e
preso dai soliti luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur
momentanea, e queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale
ch’egli sempre predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al
consueto stile degli oratori, non hanno che fare coll’entusiasmo proprio e
presente. Ma tu vorresti ch’egli esaurisse l’affetto ec. Non mi state a insegnare
quello che tutti sanno. Dall’eccesso al difetto ci corre un gran divario. Ed è
contro natura che un uomo quando si è abbandonato all’entusiasmo, ritorni in
calma, appena incominciata l’agitazione. E non c’è cosa più dispettosa che l’essere
arrestato in un movimento vivo e intrapreso con tutte le forze dell’animo o del
corpo. Leggendo i passi più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l’alternativa
continua e brusca del moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e
travagliare. Si accerti lo scrittore o l’oratore, che finattanto che non si
stancano le sue forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il
lettore o uditore si stanca. E fino a quel punto non tema di peccare in
eccesso. Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il lettore
sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo, riposa. Ma
obbligato [220]a fermarsi prima del tempo, non può, come nell’altro
caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli taglia le ali. In
somma se l’eloquenza è composta di movimenti ed affetti della specie descritta,
e di freddezze e trivialità mortali nel resto, allora Bossuet sarà veramente
eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come dice Voltaire.
Si dice
con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini
fanno la loro parte. Ma non era così dell’uomo in natura, perchè le sue
operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali
e vere.
Della
natura abbiamo tutto perduto fuorchè i vizi. Veramente molti di questi non sono
naturali, molti sono peggiorati e accresciuti, ma molti saranno ancora
primitivi, e in ogni modo non c’è vizio primitivo che non ci rimanga. E tanto
più malvagi quanto non sono contemperati colle virtù e con altre qualità che la
natura avea poste in noi.
La
compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per
se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa
è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia più volte all’anima.
Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non amabile, come in
persona vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale [221]finisce
ordinariamente colla presenza dell’oggetto, o dell’immagine che ce ne fanno i
racconti ec. (E l’anima non se ne compiace, e non la richiama.) I quali ancora
bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci momentaneamente, laddove
poche parole bastano per farci compatire una giovane e bella, ancorchè non conosciuta,
al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre più
ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe
grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così il poeta
ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben
guardare dal dar sospetto ch’egli sia brutto, perchè nel leggere una bella
poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe
disgustosissimo. Molto più s’egli parla di se, delle sue sventure, de’ suoi
amori sfortunati, come il Petrarca ec.
La
vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di quasi tutti gli uccelli, sono
cose graziose.
(21. Agosto 1820.)
E
però gli uccelli ordinariamente sono amabili.
Quella
tal compassione che ho detto per oggetti non amabili, si rassomiglia molto e
partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo tormentare una bestia ec. E perciò
a destarla ci vogliono grandi calamità, altrimenti la compassione per li
piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o forse neppur si desta negli stessi
animi ben fatti.
(21.
Agosto 1820.).
[222]Ses héros aiment mieux étre écrasés
par la foudre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE
QUE LA LOI FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy dove discorre di Eschilo.
La
lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte di viver nel
mondo, e di conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa
osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio
della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo
stesso effetto dell’esperienza rispetto al mondo.
(22. Agosto 1820.)
Dice
Macchiavelli che a voler conservare un regno una repubblica o una setta, è
necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti i politici. V.
Montesquieu, Grandeur etc. ch.8. dalla metà in poi, dove parla dei Censori.
Giordani sulle poesie di M. di Montrone applica questo detto alle arti
imitatrici. Ai principii s’intende, non quando erano bambine, ma a quel
primo tempo in cui ebbero consistenza. (Così anche si potrebbe applicare alle
lingue.) Ed io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini, cioè
farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura. -
Oh pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell’uomo è dimostrata. - Io vedo
che di tutte le altre opere della natura è dimostrato tutto l’opposto, cioè che
non si possono perfezionare, ma alterandole, si può solamente corromperle, e
questo principalmente per nostra mano. Ma l’uomo si considera quasi come fuori
della natura, e non sottomesso alle leggi naturali che governano tutti gli
esseri, e appena si riguarda come [223]opera della natura. - Frattanto l’uomo
è più perfetto di prima. - Tanto perfetto che, tolta la religione, gli è più
spediente il morire di propria mano che il vivere. Se la perfezione degli
esseri viventi si misura dall’infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado
della loro perfezione se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi la
perfezione dell’esistenza? in fatto sta che oggidì pare assurdo il richiamare
gli uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più savi e
profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque alle volte
credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche non
confondendola, credono che l’uomo sarà felice quando si regolerà intieramente
secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso.
T¯n svmatik¯n skhsin
sumb‹llesJai pròw Žret°w
Žn‹lhcin, conferre
ad virtutem capessendam, era insegnamento della setta Cirenaica, o sia de'
seguaci puri di Aristippo. Laerz. in Aristippo l.2. segm.91.
(23. Agosto 1820.)
Mhd¡n te eänai fæsei dÛkaion µ
kalòn µ aÞsxròn, ŽllŽ nñmÄ kaÜ ¦Jei. Insegnamento della stessa setta.
Ivi segm.93.
Lord
Byron nelle annotazioni al Corsaro (forse anche ad altre sue opere) cita esempi
storici, di quegli effetti delle [224]passioni, e di quei caratteri ch’egli
descrive. Male. Il lettore deve sentire e non imparare la conformità che ha la
tua descrizione ec. colla verità e colla natura, e che quei tali caratteri e
passioni in quelle tali circostanze producono quel tale effetto; altrimenti il
diletto poetico è svanito, e la imitazione cadendo sopra cose ignote, non produce
maraviglia, ancorchè esattissima. Lo vediamo anche nelle commedie e tragedie,
dove certi caratteri straordinari affatto, benchè veri, non fanno nessun colpo.
V. il discorso sui romantici, intorno agli altri oggetti d’imitazione. E come
non produce maraviglia, così neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza del
cuore a ciò che si legge o si vede rappresentare. E la poesia si trasforma in
un trattato, e l’azione sua dall’immaginazione e dal cuore passa all’intelletto.
Effettivamente la poesia di Lord Byron sebbene caldissima, tuttavia per la
detta ragione, la quale fa che quel calore non sia communicabile, è nella
massima parte un trattato oscurissimo di psicologia, ed anche non molto utile,
perchè i caratteri e passioni ch’egli descrive sono così strani che non
combaciano in verun modo col cuore di chi legge, ma ci cascano sopra
disadattamente, come per angoli e spicoli, e l’impressione che ci fanno è molto
più esterna che interna. E noi non c’interessiamo vivamente se non per li
nostri simili, e come gli enti allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli
uomini [225]di carattere affatto straordinario non sono personaggi
adattati alla poesia. Già diceva Aristotele che il protagonista della tragedia
non doveva essere nè affatto scellerato nè affatto virtuoso. Schernite pure
Aristotele quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian
fatto); alla fine la vostra psicologia, s’è vera, vi deve ricondurre allo
stesso luogo, e a ritrovare il già trovato.
(24. Agosto 1820.). V. p.238.
pensiero 1.
La sola
cosa che deve mostrare il poeta è di non capire l’effetto che dovranno produrre
in chi legge, le sue immagini, descrizioni, affetti ec. Così l’oratore, e ogni
scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi in genere, ogni scrittore. Il ne
paraît point chercher à vous attendrir:, dice di
Demostene il Card. Maury Discours sur l’Éloquence, écoutez-le cependant, et
il vous fera pleurer par réflexion. E quantunque anche la disinvoltura possa essere
affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo dire iperbolicamente, che se
veruna affettazione è permessa allo scrittore, non è altra che questa di non
accorgersi nè prevedere i begli effetti che le sue parole faranno in chi
leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo nessuno, eccetto quello ch’è
manifesto e naturale, di narrare, di celebrare, compiangere ec. Laonde è
veramente miserabile e barbaro quell’uso moderno di tramezzare tutta la
scrittura o poesia di segnetti e [226]lineette, e punti ammirativi
doppi, tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della traduzione non
so del testo nè delle altre sue opere) è tramezzato di lineette, non solo tra
periodo e periodo, ma tra frase e frase, anzi spessissimo la stessa frase è
spezzata, e il sostantivo è diviso dall’aggettivo con queste lineette (poco
manca che le stesse parole non siano così divise), le quali ci dicono a ogni
tratto come il ciarlatano che fa veder qualche bella cosa; fate attenzione,
avvertite che questo che viene è un bel pezzo, osservate questo epiteto ch’è
notabile, fermatevi sopra questa espressione, ponete mente a questa immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al lettore, il quale quanto più si vede obbligato
a fare avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e quanto più quella cosa gli
si dà per bella, tanto più desidera di trovarla brutta, e finalmente non fa
nessun caso di quella segnatura, e legge alla distesa, come non ci fosse.
Lascio l’incredibile, continuo e manifestissimo stento con cui il povero Lord
suda e si affatica perchè ogni minima frase, ogni minimo aggiunto sia originale
e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni di volte detta, ch’egli non la ridica
in un altro modo, affettazione più chiara del sole, che disgusta
eccessivamente, e oltracciò stanca per l’uniformità, e per la continua fatica
dell’intelletto necessaria a capire quella studiatissima oscurissima e perenne
originalità.
[227]Come le persone di poca
immaginazione e sentimento non sono atte a giudicare di poesia, o scritture di
tal genere, e leggendole, e sapendo che sono famose, non capiscono il perchè, a
motivo che non si sentono trasportare, e non s’immedesimano in verun modo collo
scrittore, e questo, quando anche siano di buon gusto e giudizio, così vi sono
molte ore, giorni, mesi, stagioni, anni, in cui le stesse persone di entusiasmo
ec. non sono atte a sentire, e ad essere trasportate, e però a giudicare
rettamente di tali scritture. Ed avverrà spesso per questa ragione, che un uomo
per altro, capacissimo giudice di bella letteratura, e d’arti liberali,
concepisca diversissimo giudizio di due opere egualmente pregevoli. Io l’ho
provato spesse volte. Mettendomi a leggere coll’animo disposto, trovava tutto
gustoso, ogni bellezza mi risaltava all’occhio, tutto mi riscaldava, e mi
riempieva d’entusiasmo, e lo scrittore da quel momento mi diventava ammirabile,
ed io continuava sempre ad averlo in gran concetto. In questa tal disposizione,
forse il giudizio può anche peccare attribuendo al libro ec. quel merito che in
gran parte spetta al lettore. Altre volte mi poneva a leggere coll’animo
freddissimo, e le più belle, più tenere, più profonde cose non erano capaci di
commuovermi: per giudicare non mi restava altro [228]che il gusto e il
tatto già formato. Ma il mio giudizio si ristringeva così alle cose esterne, e
nelle interne a una congettura dell’effetto che l’opera potesse produrre in
altrui. E l’opera non mi restava per conseguenza in grande ammirazione. E
noterò ancora che alle volte un’altra persona che si trovava in circostanza da
esser commosso, mi diceva mari e monti di quel libro, ch’egli leggeva nel
medesimo tempo. Questa considerazione deve servire 1. a spiegare la diversità
dei giudizi in persone ugualmente capaci, diversità che s’attribuisce sempre a
tutt’altro. 2. a non fidarsi troppo dei giudizi anche dei più competenti e di
se stesso, ed introdurre un pirronismo necessario anche in questa parte. Il
pubblico, e il tempo non vanno soggetti nei loro giudizi a questo
inconveniente.
(25. Agosto 1820.)
Torno,
tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno derivano dal greco tornñu,
torneæv, tñrnow ec. da ter¡v; onde anche in latino, tornus,
tornare ec.
Uomo
o uccello o quadrupede ucciso in campagna dalla grandine. V. p.85.
Il
volume delle frutta de’ nostri paesi va, non esattamente, ma in genere, appresso
a poco in ragione inversa della grandezza delle piante fruttifere. Piccoli
arboscelli producono la zucca, il cocomero (uno in quest’anno se n’è veduto [229]fra
noi del peso di 28 libbre), il mellone ec.: un arboscello un poco più grande
produce il pesco, più grande la ciriegia, la mandorla, la noce, l’avellana,
ec.: e finalmente la quercia produce la ghianda.
L’abuso
e la disubbidienza alla legge, non può essere impedita da nessuna legge.
Il
sistema di Napoleone metteva in somma le sostanze dei privati inabili e inerti
fra le mani degli abili e attivi, e il suo governo, contuttochè dispotico,
perciò appunto conservava una vita interna, che non si trova mai ne’ governi
dispotici, e non sempre nelle repubbliche, perchè l’uomo di talento e volontà
di operare, era quasi sicuro di trovare il suo posto di onore e di guadagno. Al
che contribuiva la moltiplicità infinita degl’impieghi la quale faceva che ogni
uomo abile ed operoso potesse essere mantenuto e arricchito a spese dei privati
inabili e pigri. (Oltre una certa sagacità ed equità nella scelta dei talenti e
delle persone). E per una parte non aveva il torto, perchè il privato incapace
e indolente, nè beneficato giova, nè maltrattato nuoce alle cose pubbliche. E
ne seguiva che tutto il corpo che sotto qualunque governo sarebbe stato morto,
si lagnasse di lui, e tutto quello che parte sarebbe stato vivo in qualunque
circostanza, parte lo era per la natura e l’efficacia del suo governo, se ne
lodasse.
[230]Dice il Casa (Galateo c.3.) che non
è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come occorse alle
volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni, e mostrarla loro. E molto
meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion
fare, con grandissima istanza pure accostandocela al naso, e dicendo: Deh
sentite di grazia come questo pute. Non solo dunque il piacere che si prova, ma
anche alcuni incomodi (oltre i dolori delle sventure ec.) si vogliono quasi per
naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci
diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l’uomo è
fatto per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o
desiderio, benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto
prontissimo e facile, perchè si dimostra anche ne’ fanciulli, e forse più
spesso che negli adulti. V. p.208. e 85. fine.
Intertenere è composto di una preposizione
totalmente latina inter, che gl’italiani dicono tra, onde trattenere ch’è quasi una traduzione d’intertenere. E come trattenere manifesta origine italiana, così l’altro verbo si dimostra palesemente per
derivato dal latino a noi, non essendo verisimile che gli antichi italiani
inventassero una parola di questa forma. Interporre, intercedere, interregno,
sono parimente derivate dall’antico latino.
[231]…Edege (Socrate) kaÜ mñnon ŽgaJòn eänai, t¯n ¤pist®mhn, kaÜ ©n mñnon kakòn, t¯n
ŽmaJÛan, dice il Laer. in Socr. l.2.
segm.31. Oggidì possiamo dire tutto l’opposto, e questa considerazione può
servire a definire la differenza che passa tra l’antica e la moderna sapienza.
Omero e Dante per l’età loro
seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli
uomini colti d’oggidì, non solo in proporzione dei tempi, ma anche
assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione materiale dalla filosofica, la
cognizione fisica dalla matematica, la cognizione degli effetti dalla
cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e varietà dell’immaginativa,
alla proprietà verità evidenza ed efficacia dell’imitazione. Questa non può
fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova sommamente al poeta l’erudizione,
quando l’ignoranza delle cause, concede al poeta, non solamente rispetto agli
altri ma anche a se stesso, l’attribuire gli effetti che vede o conosce, alle
cagioni che si figura la sua fantasia.
C’est que cela me donnera un battement de coeur,
répondit - elle NAÎVEMENT; et je suis si heureuse quand le coeur
me bat! dice Lady Morgan (France. l.3. 1818. t.1 p.218.) di una Dama
francese [232]e civetta. Queste naïvetés negli scrittori francesi, come p.e. nel Tempio di
Gnido, contrastano in maniera col carattere del loro stile, della loro lingua
quale è ridotta presentemente, (giacchè nel francese antico avrebbero fatto
diversissima figura) e anche col carattere nazionale, che sono piuttosto
affettazioni che naturalezze, e non fanno verun buono effetto, ma semplicemente
risaltano, come una singolarità ricercata, nello stesso modo che p.e. nello
stile greco risalterebbero le eleganze e il manierato del francese, e contrasterebbero
col rimanente.
L’origine
del sentimento profondo dell’infelicità, ossia lo sviluppo di quella che si
chiama sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle
grandi e vive illusioni; e infatti l’espressione di questo sentimento, comparve
nel Lazio col mezzo di Virgilio, appunto nel tempo che le grandi e vive
illusioni erano svanite pel privato romano che n’era vissuto sì lungo tempo, e
la vita e le cose pubbliche aveano preso l’andamento dell’ordine e della
monotonia. La sensibilità che si trova nei giovani ancora inesperti del mondo e
dei mali, sebbene tinto di malinconia, è diverso da questo sentimento, e
promette e dà a chi lo prova, non dolore ma piacere e felicità.
[233]A un gran fautore della monarchia
assoluta che diceva, La costituzione d’Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad
altri tempi, e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno degli astanti, È più
vecchia la tirannia.
Al capoverso primo della p.206. aggiungi: Et si elles
(les Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas donner à l’heureux
mortel des marques de prédilection en public, qu’un Anglois du bon ton de ne
pas paroître amoureux de sa femme en compagnie. Morgan, France. t.1.1818. p.253. liv.3.
A quello
che ho detto p.207. si può aggiungere quello che dice Algarotti dell’immenso
studio che bisogna oggidì per divenir letterato di qualche pregio nel mondo,
dove non passa più per vero letterato chi non è enciclopedico, studio al quale
solo basta appena la vita dell’uomo innanzi di poterlo mettere a frutto coi
parti del proprio ingegno, a differenza del poco studio che bisognava agli
antichi.
La
compassione come è determinata in gran parte dalla bellezza rispetto ai nostri
simili, così anche rispetto agli altri animali, quando noi li vediamo soffrire.
Che poi oltre la bellezza, una grande e somma origine di compassione sia la
differenza [234]del sesso, è cosa troppo evidente, quando anche l’amore
non ci prenda nessuna parte. P.e. ci sono molte sventure reali e tuttavia
ridicole, delle quali vedrete sempre ridere molto più quella parte degli
spettatori che è dello stesso sesso col paziente, di quello che faccia o sia
disposta o inclinata a fare l’altra parte, massimamente se questa è composta di
donne, perchè l’uomo com’è più profondo nei suoi sentimenti, così è molto più
duro e brutale nelle sue insensibilità e irriflessioni. E questo, tanto nel
caso della bellezza, quanto della bruttezza o mediocrità del paziente. Del
resto è così vero che le piccole sventure dei non belli non ci commuovono quasi
affatto, che bene spesso siamo inclinati a riderne.
Come la
debolezza è un grande eccitamento alla compassione, anche rispetto ai non
belli, così non è forse cosa tanto contraria alla compassione, quanto il veder
l’impazienza del male, la malignità dello spirito, pronto a schernire lo stesso
o altro male o difetto in altrui, il cattivo umore, la collera di chi soffre. E
pochissima o nessuna compassione può sperare chi non ha sortito dalla [235]natura
o acquistato dalla disgrazia una dolcezza e mansuetudine di carattere, almeno
apparente. E questo deve servir di regola ai poeti ed artisti nel formare i
personaggi che si vogliono compassionevoli. Sebbene l’eroismo, e il disprezzo
del male che si soffre possa ancora produrre un buon effetto, contuttociò
relativamente al muover la compassione non c’è miglior qualità della
sopraddetta, qualità la quale io so per esperienza che si acquista quasi per
forza coll’uso delle sventure, non ostante che naturalmente fossimo dominati
dalla qualità contraria.
Non è
cosa tanto nemica della compassione quanto il vedere uno sventurato che non è
stato in niente migliorato, nè ha punto appreso dalle lezioni della sventura,
maestra somma della vita. Perchè la prosperità abbagliando e distraendo l’intelletto,
è madre e conservatrice d’illusioni, e la sventura dissipatrice degl’inganni, e
introduttrice della ragione e della certezza del nulla delle cose. E uno
sventurato che non ha goccia di sentimento, che non arriva a sublimare un
istante l’anima sua colla considerazione dei mali, che non ha acquistato nelle
sue parole, almeno quando parla di se, niente di eloquenza e di affetto, che
non mostra una certa grandezza d’animo, non per disprezzare, ma per nobilitare
la sua sventura [236]quasi col sentimento di esserne indegno, e di non
lasciarsene abbattere senza una magnanima compassione di se; uno sventurato che
vi parla delle sue sventure, coll’amor proprio il più basso, col dolore il più
egoista, e vi fa capire che egli è tanto afflitto del male che soffre, che voi
non potreste mai arrivare (notate) ad uguagliare l’afflizion sua colla vostra
compassione (l’uomo veramente penetrato di compassione si persuade che il
paziente non sia più addolorato di lui, in somma non fa differenza fra il
paziente e se stesso, essendo pronto a tutto per aiutarlo, e perciò non mette
divario tra il dolore del paziente e il suo proprio); questo sventurato non
otterrà forse un’ombra di compassione, e il suo male sarà dimenticato, appena
saremo lontani da lui.
Tutto
quello che ho detto in parecchi luoghi dell’affettazione dei francesi, della
loro impossibilità di esser graziosi ec. bisogna intenderlo relativamente alle
idee che le altre nazioni o tutte o in parte, o riguardo al genere, o solamente
ad alcune particolarità, hanno dell’affettazione grazia ec. perchè riflette
molto bene Morgan France l.3. t.1 p.257. Il faut
pourtant accorder beaucoup à la différence des manières nationales; et celles
de la femme françoise la plus amie du naturel doivent porter avec elle ce qu’un
Anglois, dans le premier moment, jugera une teinte d’affectation, jusqu’à ce
que l’expérience en fasse mieux juger.
[237]Anche l’affettazione è relativa, e
la tal cosa parrà affettazione in un paese e in un altro no, in una lingua e in
un’altra no, o maggiore in questa e minore in quella, dipendendo dalle
abitudini, opinioni ec. L’espressione del sentimentale conveniente in Francia
sarà affettata per noi, quella conveniente per noi, sarebbe parsa affettazione
agli antichi. La grazia francese affettata per noi, non lo sarà per loro.
Tuttavia è certo che la naturalezza ha un non so che di determinato e di
comune, e che si fa conoscere e gustare da chicchessia, ma com’ella si conosce
quando si trova, così le assuefazioni ec. impediscono spessissimo di essere choqués
della sua mancanza, e di avvedercene. V. p.201. fine.
La
semplicità dev’esser tale che lo scrittore, o chiunque l’adopra in qualsivoglia
caso, non si accorga, o mostri di non accorgersi di esser semplice, e molto
meno di esser pregevole per questo capo. Egli dev’esser come inconsapevole non
solo di tutte le altre bellezze dello scrivere, ma della stessa semplicità. Homme
d’une simplicité rare, dice La Harpe di La Fontaine (Éloge de La
Fontaine), qui sans doute ne pouvait pas ignorer son genie, mais ne l’appréciait
pas, et qui même, s’il pouvait être témoin des honneurs qu’on lui rend aujourd’hui,
serait étonné de sa gloire, et aurait besoin qu’on lui révélât le secret de son
mérite. La stessa
cosa [238]in molto maggior grado si può dire degli scritti di
Senofonte, e caratterizzarne la semplicità.
Sono
state sempre derise quelle poesie che aveano bisogno di note per farsi
intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose accessorie o secondarie,
nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi ec. Che si dirà di quei poemi
che hanno bisogno di note dichiarative delle cose sostanziali e principali,
vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed operazioni del cuore umano che
descrivono, come sono i poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori della
poesia? Questi sono i grandi psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già da
gran tempo che in questo modo non si fa effetto in chi legge. V. le p.223-225.
La
negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce gli effetti
della malvagità e brutalità. E merita di esser considerata come una delle
principali e più frequenti cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni.
Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile, vedemmo un giovanastro
che con un grosso bastone, passando sbadatamente e come per giuoco, menò un
buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir
nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me
parve segno di brutale irriflessione. [239]Questa molte volte c’induce a
far cose dannosissime o penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo
anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per
trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ec.) e avvedutici, ce
ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello
che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo, e lo facciamo così alla buona,
e considerandolo bene non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto,
e produce lo stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che
ogni volta che tu riflettessi, fossi molto alieno dalla volontà di produrre
quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che
fare col tuo carattere.
Non per
altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo
agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non
hanno niente di piacevole in se (come potevano averne quelli de’ gladiatori e
delle bestie nel circo, per la gara, l’apparato ec.) ma solamente in quanto
fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita. Così tutte le altre cose
straordinarie, e perciò gradite, benchè non solo non piacevoli, ma
dispiacevolissime in se.
Dall’orazione
di M. Tullio pro Archia si vede che la lingua greca era considerata
allora come [240]universale, nello stesso modo che la francese oggidì, e
l’uso e intelligenza della lingua latina era ristretta a pochi, Latina suis
finibus, exiguis sane, continentur. Perciocchè le scritture greche si leggono
in quasi tutte le genti, le latine restano dentro a’ loro confini così stretti
come sono. Cic. l.c. E nondimeno l’impero romano fu forse il maggiore di
quanti mai si viddero, e i romani al tempo di Cicerone, erano già padroni del
mare, ed esercitavano gran commercio. Così ora si vede che gl’inglesi sono
padroni del mare e del commercio, e sebbene la loro lingua, è perciò più
diffusa di molte altre, nondimeno non è nè conosciuta nè usata universalmente,
ma da pochi in ciascun paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s’è
mai trovata favorita da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che
la diffusione di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza
della nazione che la parla (perchè la lingua francese, per quanto adattata alla
universalità, non sarebbe divenuta universale, se avesse appartenuto a una
piccola, e impotente nazione p.e. alla Svizzera), contuttociò dipende
principalmente dalla natura di essa lingua. Non vale il dire che i greci erano
diffusissimi per le colonie. Molto più lo erano i romani in quel tempo, e non
solo per le colonie, ma per le armate, governi, tribunali ec. ec. Ma quando una
lingua si diffonde per mezzo delle colonie, si può dire che si diffonda piuttosto
la nazione che la lingua, essendo [241]ben naturale che una città di
romani in qualunque luogo del mondo, parli la lingua romana, e così un’armata
ec. Ma questo non ha che fare coll’adottarsi generalmente una lingua dagli
stranieri, coll’essere tutti gli uomini colti di qualunque nazione, quasi dÛglvttoi, (v. p.684.) e col potere un
viaggiatore farsi intendere con quella lingua in qualunque luogo. Ora in questo
consiste l’universalità di una lingua, e non 1. nell’esser parlata da’
nazionali suoi, in molte parti del mondo, 2. nell’essere anche introdotta
presso molte nazioni col mezzo di quelli che la parlano naturalmente, sia coll’abolire
la lingua dei vari paesi (quando anzi la diglvttÛa suppone che questa si conservi),
sia coll’alterarla o corromperla più o meno per mezzo della mescolanza. Cosa che
vediamo accaduta nel latino, del quale si trovano vestigi notabilissimi in
molte parti d’Europa (forse anche di fuori) (come se non erro in Transilvania,
in Polonia, in Russia ec.) e si vede ch’ella si era stabilita nella Spagna e la
Francia dove poi ne derivarono, corrompendosi la latina, le lingue spagnuola e
francese; e nell’Affrica Cartaginese e Numidica ec.; quando della greca forse
non si troveranno, o meno; e contuttociò la lingua latina non è stata mai
universale nel senso spiegato di sopra, come non è universale oggi la lingua
inglese perciò ch’ella è stabilita e si parla come lingua materna in tutte
quattro le parti del mondo. (in ciascuna delle quattro parti). È noto poi come
i greci l’ignorassero sempre, il che forse contribuì a conservar più a lungo la
purità della loro lingua, la sola che conoscessero. E quanto [242]alle
colonie la Francia ha sempre o quasi sempre ceduto all’Inghilterra, alla
Spagna, e fino al Portogallo, come nel commercio. Neanche la letteratura è
cagione principale della universalità di una lingua. La letteratura italiana
primeggiò lungo tempo in Europa, ed era conosciuta e studiata per tutto, anche
dalle dame, come in Francia da Mad. di Sévigné ec. senza che perciò la lingua
italiana fosse mai universale. E se gl’italianismi guastavano la lingua
francese al tempo delle Medici, come ora i francesismi guastano l’italiano,
questo va messo nella stessa categoria della corruzione che producono le
colonie, le armate ec. (corruzione facilissima e sensibilissima. Pochi soldati
napoletani stanziati nella mia patria al mio tempo per uno o due anni, aveano
introdotto nel volgo parecchie parole ed espressioni del loro dialetto. Perchè
il volgo 1. era colpito da quella novità. 2 si faceva un pregio o un capriccio
d’imitare quei forestieri ec.). La letteratura, lingua e costumi spagnuoli si
divulgarono molto, quando la Spagna acquistò una certa preponderanza in Europa,
e massime in Italia (dove restano ancora alcune parole derivate credo allora
dallo spagnuolo), ma l’influenza loro finì con quella della nazione. Laonde
sebbene la letteratura greca, massime al tempo di Cicerone cioè [243]prima
del secolo di Augusto, era infinitamente superiore alla latina, e più divulgata
e famosa, questa ragione non basta. L’universalità di una lingua deriva
principalmente, dalla regolarità geometrica e facilità della sua struttura,
dall’esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza de’ suoi significati
ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione,
e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza
(anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità, varietà,
armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o importano
alla universalità di una lingua, quanto 1. non possono esser sentite
intimamente, e pregiate se non dai nazionali, 2. ricercano abbondanza d’idiotismi,
figure, insomma irregolarità, che quanto sono necessarie alla bellezza e al
piacere, il quale non può mai stare colla monotonia, e collo scheletro dell’ordine
matematico, tanto nocciono alla mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca
sebbene ricchissima ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa
costruzione (dico nativa, perchè poi fu alterata dagli scrittori più bassi che
pretendevano all’eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e la
proprietà de’ suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di
significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può risultare [244]dalla
copia de’ composti ma delle radici, come nel latino e italiano. E di queste
pure la lingua greca abbonda sommamente, ma può anche fare a meno della massima
parte, e con poche radici, e infiniti composti formare tutto il discorso. Tale
infatti era il costume degli antichi scrittori greci (Luciano e gli altri più
bassi, sono molto più vari e ricchi di radici). Perchè il vocabolario di
ciascheduno, osservandolo bene, si compone di molto poche parole, che ritornano
a ogni tratto, essendo raro che quegli antichi varino la parola o la frase per
esprimere una stessa cosa. Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa
è immensa, così passando da uno scrittore all’altro, ritrovate un altro piccolo
vocabolario suo proprio, del quale parimente si contenta, e le espressioni familiari
di ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma diverse quelle dell’uno
da quelle dell’altro, quasi fossero più lingue. Dal che si può dedurre che la
lingua greca benchè ricchissima nondimeno con un piccolo vocabolario può
comporre tutto il discorso, e questi vocabolari possono esser molti e diversi,
cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi negli scrittori greci più che in
quelli d’altra lingua, che la facilità acquistata nel leggere e intendere uno
scrittore, non vi giova interamente nel passare a un altro, dovendovi quasi
familiarizzare con un altro linguaggio. Questo appartiene esclusivamente alla
lingua, ma anche bisogna [245]notare che la lingua greca come l’italiana,
si presta a ogni sorta di stili, e non ha carattere determinato, ma lo riceve
dal soggetto e dallo scrittore, laonde il suo carattere varia, anche in questo
senso, e per questo motivo, secondo le diverse opere, come la lingua di Dante o
dell’Alfieri paragonata con quella del Petrarca ec.
L’irresoluzione
è peggio della disperazione. Questa massima mi venne profferita nettamente e
letteralmente in sogno l’altro ieri a notte, in occasione che mio fratello mi
pareva deliberato per disperazione di farsi Cappuccino, e io ricusava di allegargli
quelle ragioni che gli avrebbero sospeso l’animo, adducendo la detta massima.
La
lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia, la quale è la
sommità del discorso umano. Però i francesi che sono rimasti molte miglia
indietro del sublime nell’epica, molto meno possono mai sperare una vera
lirica, alla quale si richiede un sublime d’un genere tanto più alto. Il Say
nei Cenni sugli uomini e la società, chiama l’ode, la sonata della letteratura.
È un pazzo se stima che l’ode non possa esser altro, ma ha gran ragione e
intende parlare delle odi che esistono, massime delle francesi.
[246]I francesi non solamente non sono
atti al sublime, nè avvezzi a sentirlo dai loro nazionali, o a produrlo in
qualunque forma (applicate questa osservazione ch’è anche letteralmente di Lady
Morgan, e universale, ai miei pensieri sopra Bossuet), ma disublimano ancora le
cose veramente sublimi, come nelle traduzioni ec.
Dalla
teoria del piacere esposta in questi pensieri si comprende facilmente quanto e
perchè la matematica sia contraria al piacere, e siccome la matematica, così
tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza,
precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e
allo spirito dell’individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale.
Tant’è.
Le cose per se stesse non sono piccole. Il mondo non è una piccola cosa, anzi
vastissima e massimamente rispetto all’uomo. Anche l’organizzazione de’ più
minuti e invisibili animaluzzi è una gran cosa. La varietà della natura
solamente in questa terra è infinita; che diremo poi degli altri infiniti
mondi? Sicchè per una parte si può dire che non la grandezza delle cose, ma
anzi la loro nullità così evidente e sensibile all’uomo, è una pura illusione.
Ma basta che l’uomo abbia veduto la misura di una cosa ancorchè smisurata,
basta che sia giunto a conoscerne [247]le parti, o a congetturarle
secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par
piccolissima, gli diviene insufficiente, ed egli ne rimane scontentissimo.
Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ‘l dì nostro vola A
gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per
lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa, e
dilettosissima all’immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono
impiccoliti, nè quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si son
veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni prestigio
dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il
piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro
non vuol confini (sieno pure vastissimi, anzi sia pur vinta l’immaginazione
dalla verità), analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi nè
cognizione intima ed esatta della cosa piacevole (quando anche questa
cognizione non riveli nessun difetto nella cosa, anzi ce la faccia giudicare
più perfetta di quello che credevamo, come accade nell’esame delle opere di
genio, che scoprendo [248]tutte le bellezze, le fa sparire),
la matematica, dico, dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.
L’occupazione
della società, come quella che offre la società francese, riempie veramente la
vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell’animo
come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch’era quella
dell’uomo primitivo. E la sera, l’uomo che ha passata la giornata tutta intera
nel mondo il più vivo, vario, e pieno, e ne’ divertimenti anche meno noiosi, e
che si trova anche senza cure e dispiaceri, ripensando alla giornata passata, e
considerando la futura, non si trova di gran lunga così contento e pieno, come
colui che considera i bisogni ai quali ha provveduto, e fa i suoi disegni sopra
quelli a’ quali provvederà l’indomani. Qualche cosa di serio è necessario che
formi la base della nostra occupazione per condurci ad una certa felicità (più
o meno serio, secondo gl’individui), e se bene tutte le cose sono ugualmente
importanti per se stesse, e il nostro fine sia sempre il piacere, nondimeno il
puro spasso non è mai capace di soddisfarci. La cagione è che ci bisogna un
fine dell’occupazione, uno scopo al quale mirare, acciocchè al piacere dell’occupazione
si aggiunga quello della speranza, che bene spesso forma essa sola il piacere
dell’occupazione V. gli altri miei pensieri in questo proposito.
[249]Gli Egesiaci (ramo della setta
Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo l.2. segm.95.) tñn te
sofòn ¥autoè §neka p‹nta pr‹jein. Questa potrebb’esser la divisa di tutti i sapienti
moderni, in quanto sapienti.
La
natura in quanto natura assoluta e primitiva non ci ha dato idea di altri
doveri che verso noi stessi, ed ha limitato le norme del giusto ai rapporti che
l’animale ha con se stesso. Già verso gli animali d’altra specie non è dubbio
che la natura non ha dettato nessuna regola di onestà e di rettitudine, perchè
l’uomo non prova nessuna ripugnanza nel far male agli altri animali anche senza
suo vantaggio e per mero diletto, come a uccidere una formica ec. E gli altri
animali si pascono bene spesso di animali di altra specie. Ma eziandio nella
propria specie, l’uomo assolutamente primitivo, non sente ingenitamente nessuna
colpa a far male a’ suoi simili per suo vantaggio, come non la sentono gli
altri animali, che maltrattano, combattono, e alle volte anche si cibano dei
loro simili, ed anche (sento dire) dei propri figli. In quanto però alla
figliuolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di semplice
amore e inclinazione libera, o sieno anche sentimenti di dovere; ma non
perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo negli animali, [250]che
dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano affatto i propri figli, massime
quegli animali che ogni anno ne producono più d’uno. E così avverrebbe all’uomo
se il figlio arrivato all’età di provvedersi da se, si separasse dai genitori,
e questi l’uno dall’altro, come fanno gli animali. Giacchè la necessità del concubitu
prohihere vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche gli
uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di
matrimonio finchè bisogna all’educazione sufficiente dei prodotti di quel tal
matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società. Nè la detta necessità,
riguardo all’uomo, si estende più oltre di questo naturalmente, ma
artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la quale
necessita la perpetuità de’ matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle
possidenze.
Una
prova evidente e popolare, frequente nella vita, e giornaliera, che il piccolo è considerato come grazioso, si è il vezzo dei diminutivi che si
sogliono applicare alle persone o cose che si amano, o si vogliono vezzeggiare,
pregare, addolcire, descrivere come graziose ec. E così al contrario volendo
mettere in ridicolo qualche persona o cosa tutt’altro che graziosa, se le
applica il diminutivo perchè la renda ridicola colla forza del contrasto. Quest’uso
è così antico [251](nel latino, greco ec.) e così universale oggidì che
si può considerare come originato dalla natura, e non dal costume o dalla
proprietà di questa o quella lingua. E i francesi che non hanno se non
pochissimi diminutivi, nei casi detti di sopra, fanno grand’uso di questi
pochissimi, o suppliscono col petit, dimostrando che l’inclinazione ad
attribuire ed esprimer piccolezza in quelle tali circostanze, non è capriccio o
assuefazione, ma natura, ed effetto di un’opinione innata che la piccolezza sia
quasi compagna della grazia e piacevolezza, cose ben distinte dalla bellezza
colla quale non ha che fare questo attributo. E nello stesso modo, volendo
ingiuriare, dipingere come sgraziato, discacciare, ec. ec. qualunque persona o
cosa, si adopera l’accrescitivo; e in genere l’accrescitivo par che sempre
tolga grazia al soggetto, anzi sia l’opposto della grazia, e piacevolezza.
Bonaparte
per isnidare i malandrini da una contrada di Parigi v’introdusse i giullari e i
giocolieri per richiamarvi il popolo, e frequentarla. (V. Lady Morgan, France
liv.5. principio). Il Papa alcuni mesi addietro per isnidare i malviventi da
Sonnino luogo di loro rifugio nei confini del suo stato verso Napoli, decretò
la distruzione di quel paese. Bonaparte popolò il nido dei ladroni per
cacciarneli, e ottenne [252]l’intento; il Papa giudicò di non potere
ottenerlo fuorchè colla distruzione di quel luogo. Dice Cicerone che si
devastano e distruggono le città nemiche, ma che se distruggiamo le nostre
proprie, ci caviamo gli occhi di nostra mano.
Alla
tirannia fondata sopra l’assoluta barbarie, superstizione, e intera bestialità
de’ sudditi, giova l’ignoranza, e nuoce definitivamente e mortalmente l’introduzione
dei lumi. Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi. Alle tirannie
esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino a quel mezzo,
nel quale consiste la vera perfezione dell’incivilimento e della natura, l’incremento
e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec. non solamente non pregiudica,
ma giova sommamente, anzi assicura e consolida la tirannia, perchè i sudditi da
quello stato di mediocre incivilimento che lascia la natura ancor libera, e le
illusioni, e il coraggio, e l’amor di gloria e di patria, e gli altri
eccitamenti alle grandi azioni, passa all’egoismo, all’oziosità riguardo all’operare,
all’inattività, alla corruttela, alla freddezza, alla mollezza ec. La sola
natura è madre della grandezza e del disordine. La ragione tutto all’opposto.
La tirannia non è mai sicura se non quando il popolo non è capace di grandi
azioni. Di queste non può esser capace per ragione, ma per natura. Augusto,
Luigi 14. ed altri tali mostrano di aver bene inteso queste verità.
[253]Dal 2. pensiero della p.116.
inferite come, anche secondo questa sola considerazione, il Cristianesimo debba
aver reso l’uomo inattivo e ridottolo invece ad esser contemplativo, e per
conseguenza com’egli sia favorevole al dispotismo, non per principio (perchè il
cristianesimo nè loda la tirannia, nè vieta di combatterla, o di fuggirla, o d’impedirla),
ma per conseguenza materiale, perchè se l’uomo considera questa terra come un
esilio, e non ha cura se non di una patria situata nell’altro mondo, che gl’importa
della tirannia? Ed i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d’un’altra
vita, divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi
stimoli che producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche
astraendo dal dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a
distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli
uomini dall’operare al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose
dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è impossibile
che non sorga immediatamente un padrone. Non è veramente che la religion
cristiana condanni o non lodi l’attività. Esempio un San Carlo Borromeo, un San
Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo l’attività di questi santi [254]se
bene li portava ad azioni eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non
dava gran vita al mondo, perchè la grandezza delle loro azioni era piuttosto
relativa ad essi stessi che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che
materiale. In secondo luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la
perfezione piuttosto nell’oscurità nel silenzio, e in somma nella totale
dimenticanza di quanto appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto
produrre cento Pacomi e Macari per un San Carlo Borromeo, ed è certo che lo spirito
del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla noncuranza
di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere necessariamente ad
essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir
monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione
antica, secondo cui questa era la patria, e l’altro mondo l’esilio.
Il
costume e la massima di macerare la carne, e indebolire il corpo per ridurlo,
come dice S. Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni
e l’entusiasmo, e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare
il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita del
mondo, per l’altra ad appianar la strada al dispotismo, perchè non ci son forse
uomini così atti ad esser tiranneggiati [255]come i deboli di corpo, da
qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come
presso i Persiani, che dopo il tempo di Ciro divennero l’esempio dell’avvilimento
e della servitù; o da macerazione ec. Nel corpo debole non alberga coraggio,
non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec.
Nel
corpo servo anche l’anima è serva.
L’allegria
bene spesso è madre di benignità e d’indulgenza, al contrario delle cure e dei
mali umori. Questa è cosa nota e osservata, sicchè non mi fermerò a cercarne la
ragione, ch’è facile a trovare. Ma solamente considererò l’armonia della
natura, la quale mirando sempre alla felicità degli esseri, e per conseguenza l’allegria
nel sistema naturale dovendo essere la condizione più frequente della vita, ha
voluto che fosse compagna della piacevolezza verso i suoi simili, virtù somma
nella società, e per conseguenza che l’allegria fosse utile non solo all’individuo,
ma anche agli altri, e servisse alla società, e rendesse l’uomo verso altrui,
tale quale dev’essere.
L’uomo
superiore, oggidì colla cognizione e sperienza del mondo, si può dire, benchè
sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto che a dispregiare.
Dico riguardo alle cose reali. Perchè [256]mentre egli è inesperto del
mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o
grandezze in qualsivoglia genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando
sempre gli altri a se stesso, com’è costume degli uomini, o paragonando le cose
alla sua immaginativa. Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad
eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si
avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del
poco, a rinunziare alla speranza dell’ottimo o del buono, e a lasciar l’abitudine
di misurar gli uomini e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde
siccome prima egli non istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo
in cui egli le concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose
reali ch’egli stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la misura della
stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch’egli stimava, perchè sono
molte più quelle cose ch’egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di quelle
che da principio non curava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. settembre 1820.)
Si
mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari.
Una
casa pensile in aria sospesa con funi a una stella.
[257]Alle volte la vivacità (sia del
viso, o dei movimenti, o delle azioni ec.), alle volte la languidezza e flemma
è madre di grazia. E chi è preso più da quella, chi più da questa.
Bisogna
distinguere in fatto di belle arti, entusiasmo, immaginazione, calore ec. da
invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella natura desta
entusiasmo. Se questo entusiasmo sopraggiunge ad uno che abbia già per le mani
un soggetto, gli gioverà per la forza della esecuzione, ed anche per la
invenzione ed originalità secondaria, cioè delle parti, dello stile, delle
immagini, insomma di tutto ciò che spetta all’esecuzione. Ma difficilmente, o
non mai, giova all’invenzione del soggetto. Perchè l’entusiasmo giovi a questo,
bisogna che si aggiri appunto e sia cagionato dallo stesso soggetto, come l’entusiasmo
di una passione. Ma l’entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse
volte gli uomini di genio, all’udire una musica, allo spettacolo della natura
ec. non è favorevole in nessun modo all’invenzione del soggetto, anzi appena
delle parti, perchè in quei momenti l’uomo è quasi fuor di se, si abbandona
come ad una forza estranea che lo trasporta, non è capace di raccogliere nè di
fissare le sue idee, tutto quello che vede, è infinito, indeterminato,
sfuggevole, e così vario e copioso, che non ammette nè ordine, nè regola, nè [258]facoltà
di annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro
e completo, e molto meno di saisir un punto (vale a dire un soggetto)
intorno al quale possa ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni che prova,
le quali non hanno nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto, l’entusiasmo
di una passione, e volendo scegliere per soggetto la stessa passione, se l’entusiasmo
è veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna forma trattabile di
questo soggetto. In sostanza per l’invenzione dei soggetti formali e
circoscritti, ed anche primitivi (voglio dire per la prima loro concezione) ed
originali, non ci vuole, anzi nuoce, il tempo dell’entusiasmo, del calore e
dell’immaginazione agitata. Ci vuole un tempo di forza, ma tranquilla; un tempo
di genio attuale piuttosto che di entusiasmo attuale (o sia, piuttosto un atto
di genio che di entusiasmo); un influsso dell’entusiasmo passato o futuro o
abituale, piuttosto che la sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo,
piuttosto che il mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un momento in cui dopo un
entusiasmo, o un sentimento provato, l’anima sebbene in calma, pure ritorna
come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere la sensazione
passata. Quello forse è il tempo più atto, e il più frequente della concezione
di un soggetto originale, o delle parti originali di esso. E generalmente [259]si
può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo d’immaginazione
e di sensibilità, sono il frutto immediato piuttosto della memoria dell’entusiasmo,
che dello stesso entusiasmo, riguardo all’autore. (2. Ottobre 1820.). Laddove
insomma l’opinione comune che par vera a prima vista, considera l’entusiasmo
come padre dell’invenzione e concezione, e la calma come necessaria alla buona
esecuzione; io dico che l’entusiasmo nuoce o piuttosto impedisce affatto l’invenzione
(la quale dev’essere determinata, e l’entusiasmo è lontanissimo da qualunque
sorta di determinazione), e piuttosto giova all’esecuzione, riscaldando il
poeta o l’artefice, avvivando il suo stile, e aiutandolo sommamente nella
formazione, disposizione, ec. delle parti, le quali cose tutte facilmente
riescon fredde e monotone quando l’autore ha perduto i primi sproni dell’originalità.
Hanno
questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la
nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile
infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni,
tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo
abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle più
acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti
passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, [260]raccendono
l’entusiasmo, e non trattando nè rappresentando altro che la morte, le rendono,
almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto
nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in
qualunque altro modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è
propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva. Tant’è, siccome l’autore che
descriveva e sentiva così fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un
gran fondo d’illusione, e ne dava una gran prova, col descrivere così
studiosamente la loro vanità (v. p.214-215.), nello stesso modo il lettore
quantunque disingannato, e per se stesso e per la lettura, pur è tratto dall’autore,
in quello stesso inganno e illusione nascosta ne’ più intimi recessi dell’animo,
ch’egli provava. E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni
bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima,
quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo
della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del
lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria
disperazione. (Gran cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e
magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti
maggior concetto di se, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e
annichilamento di spirito). Oltracciò [261]il sentimento del nulla, è il
sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è vivo, come
nel caso ch’io dico, la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla
nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro
passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e
sua propria. Giacchè non è piccolo effetto della cognizione del gran nulla, nè poco
penoso, l’indifferenza e insensibilità che inspira ordinarissimamente e deve
naturalmente ispirare, sopra lo stesso nulla. Questa indifferenza e
insensibilità è rimossa dalla detta lettura o contemplazione di una tal opera
di genio: ella ci rende sensibili alla nullità delle cose, e questa è la
principal cagione del fenomeno che ho detto.
Osserverò
che il detto fenomeno occorre molto più difficilmente nelle poesie tetre e nere
del Settentrione, massimamente moderne, come in quelle di Lord Byron, che nelle
meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui,
dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p.e. de’ Trionfi e della
conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora di Verter, produce questo
effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro ec. non ostante che trattino e
dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose.
Io so
che letto Verter mi sono trovato caldissimo nella mia disperazione letto Lord
Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno; molto meno consolazione. [262]E
certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia disperazione:
piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.
L’uomo
si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria.
Bisogna
ricordarsi che l’invenzione della polvere contribuì non poco all’indebolimento
delle generazioni 1. disavvezzando dal portare armatura, (v. Montesquieu ch.2.
in proposito del gran vigore de’ soldati romani) 2. rendendo l’atto della
guerra non più opera della forza individuale o generale, ma quasi intieramente
dell’arte; certamente rendendo l’arte molto più arbitra della guerra che non
era stata per l’addietro ec. 3. sopprimendo o togliendo per conseguenza la
necessità di quegli esercizi che o direttamente o indirettamente come i giuochi
atletici, servivano a render gli uomini vigorosi ed atti alla guerra.
Lo
spavento e il terrore sebbene di un grado maggior del timore, contuttociò bene
spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non contengono nessuna viltà: e
possono cadere anche negli uomini perfettamente coraggiosi, al contrario del
timore. P.e. lo spavento che cagiona l’aspetto di una vita infelicissima o
noiosissima e lunga, che ci aspetti ec. Lo spavento degli spiriti, così puerile
esso, e fondato in opinione così puerile, è stato (ed ancora è) comune ad
uomini coraggiosissimi. V. la p.531, e 535.
[263]L’intrigo può star molte volte
colla chiarezza, come anche si può essere strigato ed oscuro. L’intrigo può
venire o dallo scrittore, o dalla necessità della materia, ed allora la
chiarezza è difficilissima allo scrittore, e il luogo può riuscir difficile al
lettore, sebbene sia chiaro. Ma spessissimo si confonde l’intrigo coll’oscurità,
e si chiama oscuro quello ch’è solamente intrigato, e intrigato quello ch’è
solamente oscuro. Applicate quest’osservazione ai cinquecentisti che bene
spesso sono intrigati e contuttociò chiari, ai trecentisti che per lo più sono
strigatissimi e sovente oscurissimi, agli scrittori scientifici, tecnici,
gramatici ec.
Una cosa
stimabile non può essere apprezzata degnamente se non da quelli che ne
conoscono il valore. Perciò la rarità non porta sempre con se la stima della
cosa, anzi spessissimo l’impedisce. Un uomo di grande ingegno fra gl’ignoranti
o è disprezzato, o apprezzato senz’ammirazione senza entusiasmo senza nessuno
di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili dello straordinario, e che
debbano crescere tanto più quanto la cosa è più straordinaria relativamente. Il
conto che se ne fa, è come di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i
quali talvolta lo chiedono in prestito o se ne servono presso chi lo possiede,
e non perciò stimano che quell’uomo [264]sia una gran cosa, o superiore
agli altri a cagione di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con
tanti altri. Così le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o
ignorante, così la sensibilità massimamente e l’entusiasmo, il quale anzi dalle
persone ordinarie sarà stimato piuttosto un meion¡kthma, che un pleon¡kthma, e deriso come pazzia. Così si è
veduto che eccetto i pregi sensibili, o de’ quali tutti sanno giudicare
naturalmente, tutti gli altri sono stati assai meno stimati nei secoli e nei
luoghi dove sono stati più rari. Ed è cosa certa che un grande ingegno non può
essere intimamente conosciuto, e però degnamente apprezzato e ammirato se non
da un altro grande ingegno; e così le sue opere; così tutto quello che spetta a
discipline, arti, abilità particolari, onde p.e. un grand’uomo di guerra non
riscuoterà degna ammirazione che da un altro grand’uomo dello stesso mestiere.
Anticamente
il cercare e istruirsi in diverse scuole non serviva come ora ad imparar sempre
più, giacchè tutte le scuole seguono gli stessi principii, e non si
diversificano se non per la diversa disciplina che professano. Ma allora per
imparare le dottrine di una scuola, bisognava disimparare quelle [265]dell’altra,
e scegliere quale si voleva seguire, giacchè ciascuna contraddiceva alle altre.
E perciò gli uomini di un certo ingegno mediocre si attaccavano ad una setta,
imparavano i dogmi di una sola scuola, di quelli erano contenti, e si
chiamavano col nome della loro setta. Altri un poco maggiori d’ingegno o di
presunzione introducevano qualche cangiamento nelle dottrine de’ loro maestri,
o vi aggiungevano qualche cosa, e si facevano capi di un nuovo ramo della setta
stessa. Gl’ingegni superiori, non si servivano della istruzione che prendevano
in diverse scuole se non per isceglierne il meglio, o quello che credessero
tale, e fondere insieme i dogmi scelti da varie sette, per formare o di essi
soli, o di altri che v’aggiungessero del proprio, o di un nuovo sistema cavato
dalle varie e discordanti idee acquistate, una nuova scuola e setta, come fece
Platone che amò d’istruirsi in varie scuole, e ascoltò Socrate, (altri due
subito dopo la sua morte, nominati dal Laerzio nel principio della vita di
Platone), i Pitagorici, gli Egiziani, e voleva anche ascoltare i maghi di
Persia, ma non potè a cagione delle guerre d’Asia. E [266]delle varie
dottrine imparate e scelte da queste sette compose il suo nuovo sistema.
Le
passioni e i sentimenti dell’uomo si può dire che da principio stessero nella
superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più cupo dell’anima, e finalmente
siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l’uomo naturale, sebbene
sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni nella
superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e volute
dalla natura per aprire una strada alla soverchia fuga ed impeto del
sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè
richiamato subito al di fuori, dopo un grand’empito esterno, presto veniva
meno, se bene fosse molto più frequente. L’uomo non più naturale, ma che
tuttavia conserva un poco di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza
della passione, come l’uomo primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne
dà segni se non leggeri ed equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto
nel profondo, ed acquista maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è
doloroso, non avendo lo sfogo voluto dalla natura, diventa capace anche di
uccidere o di tormentare più o meno, secondo la qualità sua e dell’individuo.
Di queste persone si trovano anche oggidì, [267]perchè, tolto qualche
parte del volgo, nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione
lanciarsi alla superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura
trionfa); ma molti ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla
provare contenuta e chiusa nel fondo dell’animo. Tuttavia è certo che questi
tali appartengono ad un’epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera
sensibilità non era nè così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel
fatto, come presentemente. L’uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai
passione o sentimento che si lanci all’esterno o si rannicchi nell’interno, ma
quasi tutte le sue passioni si contengono per così dire nel mezzo del suo
animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il
libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec. In maniera che
la massima parte della sua vita si passa nell’indifferenza e conseguentemente
nella noia, mancando d’impressioni forti e straordinarie. Esempio. Un amico o
persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che vediate per la prima
volta. Il fanciullo e l’uomo selvaggio l’abbraccerà, lo carezzerà, salterà,
darà mille segni esterni di quella gioia che l’anima veramente e vivamente;
segni non fallaci, ma verissimi [268]e naturalissimi. L’uomo di
sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà per la mano, o al più l’abbraccerà
lentamente, e resterà qualche tempo in questo abbracciamento, o in altra
positura, non dando segno della gioia che prova se non colla immobilità della
persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima, e mentre il di dentro è
diversissimo, il di fuori sarà quasi quello di prima. L’uomo ordinario, o l’uomo
di sentimento affievolito e intorpidito dall’esperienza del mondo, e dalla
misera cognizione delle cose, insomma l’uomo moderno, conserverà di dentro e di
fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola, minore
ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no, quello
sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che si
gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo
desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o
di scuotervi. V. p.270. capoverso 1.
Chi non
ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione. Eccetto quelle
che sono piacevoli per se stesse, e nell’atto, (e sono ben poche, e il piacere
che danno è sommamente inferiore all’aspettazione) tutte le altre non sono
dilettevoli se non fatte con uno scopo e una speranza, e un’aspettativa [269]di
cosa non presente e che debba seguirne. Se bene molte di queste, o perchè lo
scopo si venga conseguendo a ogni tratto, come nello studio, o perchè lo scopo
sia tanto inerente e immedesimato con lei, che appena si lasci distinguere,
sogliono esser confuse colle azioni dilettevoli per se stesse, quando non
dilettano se non in quanto sono indirizzate a quel fine, e a quella speranza,
tolte le quali cose restano indifferenti o noiose, come si può vedere
considerando la stessa azione in due diversi individui.
La pura
bellezza risultante da un’esatta e regolare convenienza, desta di rado le
grandi passioni (come dice Montesquieu), per lo stesso motivo per cui la
ragione è infinitamente meno forte ed efficace della natura. Quella bellezza è
come una ragione, perciò non suppone vita nè calore, sia in se medesima, sia in
chi la riguarda. Al contrario un volto o una persona difettosa ma viva,
graziosa ec. o fornita di un animo capriccioso, sensibile ec. sorprende,
riscalda, affetta e tocca il capriccio di chi la riguarda, senza regola, senza
esattezza, senza ragione ec. ec. e così le grandi passioni nascono per lo più
dal capriccio, dallo straordinario ec. e non si ponno giustificare colla
ragione.
[270]Quello che ho detto p.266.-268.
deve servir di regola agli scrittori drammatici nell’esprimere e modellare i
caratteri dei diversi tempi.
(10. ottobre 1820.)
La
semplice bellezza rispetto alla grazia ec. è nella categoria del bello, quello
ch’è la ragione rispetto alla natura nel sistema delle cose umane. Questa
considerazione può applicarsi a spiegare l’arcana natura e gli effetti della
grazia.
La
ragione è debolissima e inattiva al contrario della natura. Laonde quei popoli
e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione saranno stati e saranno
sempre inattivi in proporzione della influenza di essa ragione. Al contrario
dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o filosofo non potrebbe
sussistere per mancanza di movimento e di chi si prestasse agli uffizi
scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti osservate quegli uomini
(che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e disingannati per lunga
esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente ragionevoli. Non sono capaci
d’impegnarsi in nessun’azione, e neanche desiderio. Simili al march. D’Argens,
di cui dice Federico nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto pur
respirare, se avesse potuto. La conseguenza della loro stanchezza, esperienza, e
cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che li fa seguire il moto
altrui senza muoversi da se stessi, anche nelle cose che li riguardano. Laonde
se questa indifferenza potesse divenire universale [271]in un popolo,
non esistendovi moto altrui, non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
La
gloria per lo più, massimamente la letteraria, allora è dolce quando l’uomo se
ne pasce nel silenzio del suo gabinetto, e se ne serve di sprone a nuove
imprese gloriose, e di fondamento a nuove speranze. Perchè allora ella conserva
la forza dell’illusione, sola forza ch’essa abbia. Ma goduta nel mondo e nella
società, ordinariamente si trova esser cosa o nulla, o piccolissima, o insomma
incapace di riempier l’animo e soddisfarlo. Come tutti i piaceri da lontano sono
grandi, e da vicino minimi, aridi, voti, e nulli.
Coloro
che dicono per consolare una persona priva di qualche considerabile vantaggio
della vita: non ti affliggere; assicurati che sono pure illusioni: parlano
scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono
illusioni o consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si
compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e
perchè vivo? Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec.
tendenti a fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il
movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, [272]come son tolte.
Che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la
virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la
fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono
enti immaginari. E tuttavia l’uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel
mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti
immaginari (astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice.
Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier l’animo
umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza nessun
piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste illusioni più
realizzate, e se l’uomo di cuore non si dovesse persuadere non solo che sono
enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così immaginari
come sono? in maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all’illusione.
E dall’altro lato, non c’è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che
quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall’onesto.
Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l’uomo
sarebbe infelice.
[273]Di un ricco avaro al quale era
stata rubata una piccolissima somma in un suo stanzino pieno di danaio, disse
taluno, S’è mostrato avaro (È stato avaro) anche nel lasciarsi rubare.
La
maggior parte degli uomini vive per abito, senza piaceri, nè speranze formali,
senza ragion sufficiente di conservarsi in vita, e di fare il necessario per
sostenerla. Che se riflettessero, astraendo dalla religione, non troverebbero
motivo di vivere, e contro natura, ma secondo ragione, conchiuderebbero che la
vita loro è un assurdo, perchè l’aver cominciato a vivere, secondo natura
sibbene, ma secondo ragione non è motivo giusto di continuare.
Alla
p.263. pensiero 2. aggiungi. Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare
di un pregio, se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero,
lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno
sarà infinitamente minor del giusto, sicchè relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria dove sapevano ch’io era dedito
agli studi, credevano ch’io possedessi tutte le lingue, e m’interrogavano
indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico,
fisico, matematico, politico, medico, teologo ec. insomma enciclopedicissimo. E
non perciò mi credevano una gran cosa, e per l’ignoranza, non sapendo che cosa
sia un letterato, non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri,
malgrado la detta opinione che [274]avevano di me. Anzi uno di coloro,
volendo lodarmi, un giorno mi disse, A voi non disconverrebbe di vivere qualche
tempo in una buona città, perchè quasi quasi possiamo dire che siate un
letterato. Ma s’io mostrava che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi
non credevano, la loro stima scemava ancora, e non poco, e finalmente io
passava per uno del loro grado. È vero però che talvolta può succedere il
contrario, e per un’opinione simile, in tempi o luoghi ignoranti, un uomo o un
pregio piccolo conseguire una somma stima.
Alla
p.252. capoverso 1. Vedi in questo proposito la p.114. pensiero ultimo, e
considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i
Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch’io dico, cioè dell’esser
gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissimi alla tirannia.
V. anche Montesquieu Grandeur etc. ch.10. principio. Certo la profonda
filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di
Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec. non impedì la tirannia, anzi
laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n’ebbero in buon
numero, e così profondi come questi, e come non ne avevano avuti mai, furono
schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene paiano suoi nemici,
così scambievolmente la [275]tirannia giova loro, 1. perchè il tiranno
ama e proccura che il popolo si diverta, o pensi (quando non si possa impedire)
in vece che operi, 2. perchè l’inoperosità del suddito lo conduce naturalmente
alla vita del pensiero, mancando quella dell’azione, 3. perchè l’uomo snervato
e ammollito è più capace e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll’amenità
ec. degli studi eleganti, che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la
monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la riflessione,
la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico; l’eloquenza
non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5. perchè la mancanza
delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e
insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la
cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione
tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità, dalla filosofia, dalla
ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della
immaginazione primitiva. Come è quella de’ settentrionali, massime oggidì, fra’
quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul
pensiero, [276]sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia,
sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa
che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia.
P.51
capoverso 4. aggiungi. Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente
colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per
imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di
circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per
politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza
rimorso.
(14. ottobre 1820.)
La
convenienza che cagiona la bellezza non è solamente nelle parti della cosa.
Molte cose possono esser così semplici che quasi non abbiano parti. E il bello
morale, e tutto quel bello che non appartiene ai sensi, non ha parti. Ma la
convenienza della cosa si considera anche rispetto alle relazioni del tutto, o
delle parti coll’estrinseco. P.e. coll’uso, col fine, coll’utilità, col luogo,
col tempo, con ogni sorta di circostanza, coll’effetto che produce o deve
produrre ec. Una spada con una gemma sulla [277]punta, la qual gemma
corrispondesse perfettamente all’ornato, alle proporzioni, alla configurazione,
alla materia del resto, a ogni modo sarebbe brutta. Questa bruttezza non è
sconvenienza di parti, non di una parte coll’altre, ma di una parte col suo uso
o fine. Di questo genere sono infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili,
che intelligibili, morali, letterarie ec.
(14. ottobre 1820.)
Quel
vecchio che non ha presente nè futuro, non è privo perciò di vita. Se non è
stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla che gli somministra la
sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se è stato uomo, ha un passato, e
vive in quello. La mancanza del presente, non è la cosa più grave per gli
uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si vede nella realtà e da
vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti, e che ogni uomo
manchi del presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch’è
già sazio della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i
suoi desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e [278]intorpiditi,
e ristretti, e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni
presenti, nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l’estensione
materiale del suo futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto
di un piccolo spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè
beni, attività, piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell’avvenire, dev’essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, non serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. Le rimembranze
della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell’età
perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti,
dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria, di
piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue, sono ardentissime ed
esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo. Quanto è
maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e l’estensione e
intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando questa, quanto
maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di [279]morte, di
nullità, di noia ch’egli prova: insomma tanto meno egli vive in tali
circostanze, quanto la sua vita interiore è più energica. 3. Il giovane non ha
provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi desideri e passioni sono più
ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l’età, ma anche
materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi. Non può
esser disingannato nell’intimo fondo e nella natura, quando anche lo sia in
tutta l’estensione della sua ragione. 4. Il suo futuro è materialmente
lunghissimo, e l’immensità dello spazio vuoto che resta a percorrere, fa
orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta pena a passare.
Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera eccessivamente,
sembrandogli quel futuro più lungo e terribile di un’eternità. Di più tutta la
sua vita consiste nel futuro. L’età passata non è stata altro che un’introduzione
alla vita. Dunque egli è nato senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni
mortali, considerando che una sola volta deve passare per questo mondo, e che
questa volta non godrà della vita, non vivrà, avrà perduto e gli sarà inutile
la sua unica esistenza. Ogn’istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra [280]una perdita irreparabile fatta sopra un’età che
per lui non può più tornare.
Il
suo divertimento era di passeggiare contando le stelle (e simili).
(16. ottobre 1820.)
Anche la
mancanza sola del presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le
illusioni in lui sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma
l’ardor giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è
soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha bisogno di un’energia attuale, e
la monotonia e l’inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia
maggiore che in qualunque altra età, perchè l’assuefazione alleggerisce
qualunque male, e l’uomo col lungo uso si può assuefare anche all’intera e
perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile che da principio. L’ho
provato io, che della noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in
luogo di scemare, tuttavia l’assuefazione me la rendeva appoco appoco meno
spaventosa, e più suscettibile di pazienza. La qual pazienza della noia in me
divenne finalmente affatto eroica. Esempio de’ carcerati, i quali talvolta si
sono anche affezionati a quella vita.
L’abito
dell’eroismo può essere in un corpo debole, ma l’atto difficilmente, e non
senza un grande [281]sforzo, nè senza ripugnanza, e quasi contro natura.
E perciò vediamo moltissimi che per abito sono tutt’altro che eroi, far non di
rado azioni eroiche; e viceversa. Anzi si può dire che gli uomini d’abito di
principii e d’animo eroico, lo sono di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel
fatto, lo sono di rado nell’abito nei sentimenti e nell’animo. Estendete queste
osservazioni all’entusiasmo.
Quell’usignuolo
di cui dice Virgilio nell’episodio d’Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va
piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone,
esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta,
senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è
compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza ch’esprime, secondo quello
che ho detto in altri pensieri.
Il
Buffon Hist. nat. de l’homme, combatte coloro i quali credono che la
separazione dell’anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa. A’
suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il più concludente. Se volessimo
considerar l’anima come materiale, già non si tratterebbe più di separazione, e
la morte non sarebbe altro che un’[282]estinzione della forza vitale, in
qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. Ma considerandola come
spirituale, è ella forse un membro del corpo, che s’abbia a staccare, e perciò
con gran dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la materia,
qualunque sieno, certo non sono materiali, e l’anima non si svelle come un
membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere, nello stesso modo
che una fiamma si estingue e parte da quel corpo dove non trova più alimento,
nel che, per dire un’immagine, noi non vediamo nè ci figuriamo neanche
astrattamente nessuna violenza e nessun dolore sia nel combustibile sia nella
fiamma. La morte nell’ipotesi della spiritualità dell’anima, non è una cosa
positiva ma negativa, non una forza che la stacchi dal corpo, ma un impedimento
che le vieta di più rimanervi, posto il quale impedimento, l’anima parte da se,
perchè manca il come abitare nel corpo, non perchè una forza violenta ne la
sradichi e rapisca. Giacchè se l’anima è spirito, non bisogna considerarla come
parte del corpo, ma come ospite di esso corpo, e tale che l’entrata e l’uscita
sua sia facilissima leggerissima e dolcissima, non essendoci mica nervi nè
membrane nè ec. che ve la tengano attaccata, o [283]catene che ve la
tirino quando deve entrarvi. E quando v’entra, la cosa è insensibile, e l’uomo
certamente non se ne avvede; così la sua uscita dev’essere insensibile, e tutta
diversa dalla nostra maniera di concepire. Come l’uomo non s’accorge nè sente
il principio della sua esistenza, così non sente nè s’accorge del fine, nè v’è
istante determinato per la prima conoscenza e sentimento di quello nè di
questo. V. p.290.
Qualunque
uomo nuovo tu veda, purch’egli viva nel mondo, tu sei certo di non errare,
tenendolo subito per un malvagio, qualunque sia la sua fisonomia, le maniere,
il portamento, le parole, le azioni ec. E chi vuol mettersi al sicuro deve
subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non troverà mai di avere
sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli possano dimostrare
il contrario per lunghissimo tempo. Nello stesso modo, e per la stessa ragione
è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell’uomo da bene che si unisce
in matrimonio. Perchè s’egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi
figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo [284]fino da quel
primo punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche
malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o arte
di educazione ec. Perchè da che un uomo qualunque dovrà entrare nella società,
è quasi matematicamente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un
tratto, certo a poco a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a
proporzione degli ostacoli ch’esso gli opporrà, ma che in tutti i modi
certamente saranno vinti. E parimente dovrebb’esser dolorosissimo per l’uomo da
bene il considerare nel mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura,
qualunque immaginabile speranza di virtù, ch’egli ne possa concepire, è
certissimo per infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran
parte, inutili e vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e
cercare il buon educatore, è d’istillare ne’ suoi figli tanta dose di virtù, che
venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a proporzione della
prima quantità. Questa sarebbe ben altra risposta da darsi a chi vi
consigliasse d’ammogliarvi, o v’interrogasse perchè non l’abbiate fatto. Al che
Talete interrogato [285]da Solone, dicono che rispondesse col mostrargli
le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli o le sventure della sua
prole. Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare dei malvagi: per non
dare al mondo altri malvagi.
La speranza,
cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo
accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la
più decisiva.
Si può
applicare alla poesia (come anche alle cose che hanno relazione o affinità con
lei) quello che ho detto altrove: che alle grandi azioni è necessario un misto
di persuasione e di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al
maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno
di un falso che pur possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie
della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento
che la cosa stia o possa stare effettivamente così. Perciò l’antica mitologia,
o [286]qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell’illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l’abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l’idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci
persuadono, perchè l’assuefazione c’impedisce quasi di distinguerle da quei
poeti, tempi, avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere
quanto basta all’effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate
nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia
massimamente a soggetti moderni o de’ bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non
so che di arido e di falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche
la parte del bello immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per
questa parte il Tasso non produrrà mai l’effetto dei poeti antichi, [287]sebbene
il suo favoloso e maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in
tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova [o]
nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell’intelletto, mancando la detta
assuefazione, la quale supplisce al resto ne’ poeti antichi. E questa è una
gran ragione per cui la poesia oggidì non può più produrre quei grandi effetti
nè riguardo alla maraviglia e al diletto, nè riguardo all’eccitamento degli
animi, delle passioni ec. all’impulso a grandi azioni ec. Tanto più che la
religion cristiana non si presta alla finzione persuadibile, come la pagana. A
ogni modo è certo appunto per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì
non potendo aver più effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che
questa maneggiata con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti ec. produrre impressioni sufficienti e notabili.
Anche
gli animali si associano in molti casi, e sempre per lo vantaggio comune. Oltre
le formiche e le api che ho notate altrove, si può osservare [288]la
così detta ruota che fanno i cavalli e altri animali per difendersi da comuni
aggressori. Dalla quale s’inferisce ancora che gli animali hanno idee
sufficienti di ordinanza o tattica, cioè del modo di accrescere e rendere più
profittevoli le forze individuali 1. coll’unione di molti individui, 2. colla
disposizione e figura di tutta la torma, 3. colla conveniente collocazione degl’individui.
Di tali società guerriere offensive e difensive, credo che la storia naturale
fornisca moltissimi esempi. Come anche in altri casi; p.e. se è vero quello che
si racconta dell’ordinanza delle grù nei viaggi che fanno, della sentinella o
svegliatrice che tengono. Così la catena delle scimmie per passare i fiumi,
così cento altri esempi dell’aiuto scambievole che le bestie si prestano per
vantaggio comune, e forse anche talvolta per vantaggio del solo bisognoso e
aiutato.
Tutte le
cose si desiderano perfette relativamente al loro genere. Tuttavia perchè il
perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che imitano o
contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto, cioè imitare
piuttosto [289]e figurare e scegliere l’individuo difettoso che il
perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile, e fare inganno,
e persuadere che il finto sia vero. E laddove il difetto scema pregio all’imitato
e vi si biasima, accresce pregio all’imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi
contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in
un filo vero le vorresti tutte così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo
mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo
sempre più l’Achille difettoso di Omero, che l’Enea, il perfetto eroe di
Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l’illusione e
la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento di tutti i
poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè rifiutino gli
eccessi tanto di perfezione quanto d’imperfezione, intorno alla quale siamo
pure nello stesso caso. Applicate quest’ultima riflessione ai protagonisti di
Lord Byron.
[290]Alla p.283. aggiungi. L’uomo non si
avvede mai precisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia
proccurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un
interrompimento, e quasi un’immagine di esso fine; e se l’uomo non può sentire
il punto in cui le sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando
sono distrutte. Forse anche si potrà dire che l’addormentarsi non è un punto,
ma uno spazio progressivo più o meno breve, un appoco appoco più o meno rapido;
e lo stesso si dovrà dir della morte. Di più è certo che i momenti i quali
precedono immediatamente il sonno, e il punto o lo spazio dell’addormentarsi
definitivamente (sebbene impercettibile), è dilettevole. Questo quando anche la
cagione del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la semplice
debolezza, non siano dilettevoli, anzi l’opposto; e però i momenti più lontani
dal sonno siano penosi. Anzi anche il letargo proveniente da infermità, anche
mortale, è dilettevole. Che il torpore sia dilettevole l’ho notato già in
questi pensieri nella teoria del piacere, e assegnatane la ragione. Credo che
su questo fondamento il Napoletano [291]Cirillo abbia opinato che la
morte abbia un non so che di dilettevole. Nel che sono interamente con lui, e
non dubito che l’uomo (e qualunque animale) non provi un certo conforto, e un
tal qual piacere nella morte. Non già che le cagioni di lei, e perciò i momenti
più lontani da lei, siano dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono
immediatamente, e quello stesso punto o spazio impercettibile, e insensibile,
in cui ella consiste. E ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime,
nelle quali il Buffon pare che convenga che la morte possa esser dolorosa. Anzi
il torpore della morte dev’esser tanto più dilettevole, quanto maggiori sono le
pene che lo precedono, e da cui esso per conseguenza ci libera. E però
generalmente e sempre, il torpore della morte dev’essere più grato di quello
del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio. Il qual sonno come ho
detto non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie
vive, come da febbre ardente ec. Quanto alle malattie dove l’uomo si estingue
appoco appoco, e con piena conoscenza fino all’ultimo, è certo che non v’è
momento così immediatamente vicino alla morte, dove l’uomo anche il meno illuso
non si prometta un’ora almeno di vita, come si dice de’ vecchi ec. E così la
morte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo, per la solita
misericordia della natura. Vedi p.599. capoverso 2. Io bene spesso trovandomi
in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo,
ma la mia anima senza sforzo, e senza eroismo, si compiaceva [292]naturalmente
nell’idea di un’insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una
continua inazione dell’anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei
momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di
morte, nè mi spaventava punto. E moltissimi malati non eroi, nè coraggiosi anzi
timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori,
e sentono un riposo in quell’idea, il quale sarebbe molto maggiore, se l’idea
della morte non fosse accompagnata dai timori del futuro, e da cento altre cose
estranee, e d’altro genere. Del resto il riposo ch’io desiderava allora mi
piaceva più che dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto ripigliare
svegliandomi gli stessi travagli de’ quali era così stanco.
Se la
morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca riguardo a quei
momenti nei quali l’uomo conserva ancora una cognizione di se, che va scemando
a poco a poco, giacchè questo non si dubita che non sia uno spazio progressivo,
ma riguardo al tempo non sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile. Il quale
pare che debba essere istantaneo, giacchè il passaggio dal conoscere al non
conoscere, [293]dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma
al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto, e
istantaneamente.
Ho detto
altrove; (p.55.) domandate piacere ad uno, che non vi si possa fare senza
incorrere nell’odio di un altro ec. La cagione di questo è che l’odio è
passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio
produca l’amore passione, giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia
più efficace ed attiva dell’odio e di tutte le altre. Ma la semplice
gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove l’amore passione, benchè
sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell’amor proprio, giacchè si ama
quell’oggetto come cosa che c’interessa, ci piace, e la nostra persona entra in
questo affetto per grandissima parte. Ma la ragione non è mai efficace come la
passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione
come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e
dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose, può ben [294]esser
corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose
andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione.
Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in
passione; fare che il dovere la virtù l’eroismo ec. diventino passioni. Tali
sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto
meglio. Ma quando la sola passione del mondo è l’egoismo, allora si ha ben
ragione di gridar contro la passione. Ma come spegner l’egoismo colla ragione
che n’è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l’uomo privo di
passioni, non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perchè le cose
son fatte così, e non si possono cambiare, chè la ragione non è forza viva nè
motrice, e l’uomo non farà altro che divenirne indolente, inattivo, immobile,
indifferente, infingardo, com’è divenuto in grandissima parte.
Le
cagioni dell’amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i quali par
che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la morte può [295]privarci
di minore spazio di tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno
discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni
fuorchè le vere: v. lo Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho recata,
mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre. 1. Che coll’ardore
e la forza della vitalità e dell’esistenza, si estingue o scema il coraggio, e
quindi a proporzione che l’esistenza è meno gagliarda, l’uomo è meno forte per
poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la perdita. Anche i giovani
più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni
rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto per la detta
cagione della minor forza del corpo, e quindi dell’animo, quanto perchè non
possono opporre alla morte quell’irriflessione, quel movimento, quell’energia,
che gl’impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi. 2. Che molte
cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e
in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori;
affezioni, progetti ec. che da lontano pareano facili ad abbandonare [296]per
forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino
rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si
considerano quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo
amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto
che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della
maggiore o minor perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore
e di quest’odio crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e
più bisognosa di cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i
beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando
sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel
disprezzo era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i
limiti in qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all’uomo, è
il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che
la felicità o infelicità non si misura dall’esterno ma dall’interno. Il vecchio
per l’assuefazione è meno suscettibile [297]di mali, e meno sensibile a
quelli che gli avvengono; per l’estinzione dell’impeto e dell’inquietudine
giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo nei desideri, più
facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a desiderar cose dove
possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del vecchio non è più
infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo la sesta
considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è penosa ma
piacevole, quando s’accordi col metodo, calma, e inattività dell’individuo.
Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione ch’egli
desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima o
impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il
vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età,
e a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o
certo lo soffre con pazienza, e quando l’uomo è perfettamente paziente, allora
non può non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta
delle passioni, dalla [298]quale il vecchio è libero, la tempesta del
mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli stessi diletti, quella
tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata in mezzo alla
noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il
riposo e la quiete, e che l’uomo anche più ardente, più bisognoso di energia,
tende alla calma e all’INAZIONE continuamente in quasi tutte le sue
operazioni. Osservate ancora che la vita metodica era quella dell’uomo
primitivo, e la più felice vita, non sociale, ma naturale. Osservate anche
oggidì l’impressione che fa l’aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle
persone più dissipate, o più occupate, e com’ella par loro la più felice che si
possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale quando consiste in un
metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei selvaggi sempre occupati
ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della fatica e dell’azione. Ma
in ogni modo l’uomo avvezzandosi anche alla pura inazione, ci si affeziona
talmente che l’attività gli riuscirebbe [299]penosissima. Si vedono bene
spesso de’ carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella
stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l’imminenza
del male, accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi
(come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata da me, che non ho mai
sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di gioia maniaca ma
schiettissima, come in alcuni tempi ch’io aspettava un male imminente, e diceva
a me stesso; ti resta tanto a godere e non più, e mi rannicchiava in me
stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto di quel male, per
pensare solamente a godere, non ostante la mia indole malinconica in tutti gli
altri tempi, e riflessivissima. Anzi forse questa accresceva allora l’intensità
del godimento, o della risoluzione di godere. Applicate anche questa settima
considerazione ai vecchi. V. p.121. pensiero 3. e confrontalo, rettificalo, ed
accrescilo con questo, e questo con quello.
I
principi non possono essere amati per altra passione che per quella che
consiste nell’amor di parte. [300]L’ambizione, l’avarizia ec. cadono
sotto la categoria dell’interesse, consistono nel freddo calcolo dell’egoismo,
e perciò spettano alla ragione, tutto l’opposto del fervido, irriflessivo e
cieco impeto della passione. E chi sacrifica se stesso al principe per
ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità, non si sacrifica
veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede utile a se
stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa. Ma l’amor di parte conduce a
sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione nè ritegno nè calcolo
veruno, all’oggetto di questo amore, e così la passione primieramente è più
forte della ragione e dell’interesse, e conduce ad affrontare molto maggiori
ostacoli e pericoli; in secondo luogo non è soggetta a cambiar di strada
secondo le circostanze, come l’interesse che da una causa porta a difenderne un’altra,
secondo che meglio torna. I principi dunque non potendo esser favoriti dai
sudditi per altra passione che per la sopraddetta, e l’interesse non essendo nè
così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi essendo inoperosissima
(giacchè vediamo tutto giorno che quella parte [301]dei sudditi la quale
ama o favorisce il suo governo per mera persuasione, come anche quella che lo
odia nello stesso modo, è la parte più immobile e più passiva del popolo),
debbono fomentare l’amor di parte. E siccome questo non è attivo anzi non
esiste, se non v’è parte contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si
può affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla
sua, quando esista la favorevole, e sia più forte com’è il più naturale e
ordinario. Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì loro così bene come
nessuno ignora. E i realisti di Francia, e le provincie o città realiste non
sarebbero così ardenti sostenitori del re, se non avessero lo spirito di parte,
e se non esistesse un partito contrario considerabile, il quale non è più
forte, ma se fosse, l’affare sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e
prove simili può fornire la storia antica e moderna e presente. Quello dunque
che ho detto p.113. de’ conquistatori, si può estendere a tutti i principi e
governi.
massime
monarchici, oligarchici, aristocratici ec. perchè nelle repubbliche [302]il
caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni, ma non però
che anche questa non si possa applicare ad esse pure. V. p.1242.
Nelle
estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o
qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra consolazione
che della morte. Il libro di Crantore perÜ p¡nJouw lodatissimo dagli antichi, il libro
di Cicerone de Consolatione dove espresse in gran parte quello di
Crantore, saranno stati utili alle altre età. Pel giovane estremamente
sventurato, o che si creda tale, non si può scriver libro consolatorio.
La
corruttela de’ costumi è mortale alle repubbliche, e utile alle tirannie, e
monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natura e differenza di
queste due sorte di governi.
La
plus grande marque qu’on est né avec de grandes qualités, c’est d’être sans
envie Madame la Marquise de Lambert, Avis d’une mère à son fils. À Paris et à
Lyon 1808. p.67.
Une résistance inutile (aux malheurs) retarde l’habitude
qu’elle (l’ame) contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs.
Renvoyez-les à la patience: c’est à elle seule à les adoucir [303]. La
même, ibid. p.88. (5 Nov. 1820.).
Bione Boristenite ¤rvthJeÛw pote tÛw mllon Žgvni™ (anxietate maiore detineatur), ¦fh, õ tŒ m¡gista boulñmenow eéhmereÝn, colui che cerca le supreme felicità
(Laerz. in Bione, l.4 segm.48.). Chi sa pascersi delle piccole felicità, raccogliere nell’animo suo i
piccoli piaceri che ha provato nella giornata, dar peso presso
se
medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la vita, e se non è felice, può
crederlo, e non accorgersi del contrario. Ma chi non dà mente se non alle
grandi felicità, non considera come guadagno, e non proccura di pascersi e
ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le piccole riuscite,
soddisfazioni, conseguimenti ec. e tiene tutto per nulla, se non ottiene quel
grande e difficile scopo che si propone; vivrà sempre cruccioso, ansioso, senza
godimenti, e in vece della gran felicità, ritroverà una continua infelicità.
Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo, lo troverà molto
inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose lungamente desiderate e
cercate.
Osservano
i giuristi che nel Cod. Giustin. non si trova legge contro i duelli (perlochè
moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente quella di Costantino M. [304]contro
i Gladiatori). Così accade a chi fa il ritratto o la copia avanti che abbia
veduto l’originale, o ad un fanciullo che si faccia le vesti per quando sarà
cresciuto.
Il
faut s’arrêter et séjourner sur les goûts et sur les plaisirs, pour en jouir:
il faut de repos pour le bonheur. Il n’y a point de présent pour une ame
agitée: la soif des richesses ne laisse jamais assez de calme pour sentir ce
que l’on possède (lo stesso dite di qualunque altro desiderio difficile a
conseguire, e vivissimo tuttavia)... Ils passent leur vie en désirs et en
espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais ils espérent de vivre. Madame de
Lambert, Réflexions sur les richesses. Paris 1808. à la suite des Avis d’une
mère à son fils. p.153.154.
Quel
detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas a me
pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il
risultato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo
insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto nè
alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l’avevamo messo in
pratica da [305]fanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti
studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha
insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo
dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e
selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e
senza stenti nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la
natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di
qualsivoglia tempo; anzi tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è
cosa quasi fuori di se; noi operavamo per istinto e disposizione ch’era dentro
di noi, ed immedesimata colla nostra natura, e però più certamente e
immancabilmente e continuamente efficace. Così l’apice del sapere umano e della
filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse
ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha
fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s’ella
non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci
libera e disinganna dalla filosofia.
[306]Aristotele, o secondo altri,
Diogene, tò k‹llow pantòw ¦legen ¤pistolÛou sustatikÅteron. (Laerz. in Aristot.
l.5. seg.18.) Teofrasto definiva la bellezza sivpÇsan
Žp‹thn (ib.
19.). Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che
dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d’animo, è tutto
falso. E così la bellezza è una tacita menzogna. Avverti però che il detto di
Teofrasto è più ordinario, perchè Žp‹th non è propriamente menzogna, ma
inganno, frode, seduzione, ed è relativo all’effetto che la bellezza fa sopra
altrui, non al mentire assolutamente.
Appelliamo
tutto giorno ai posteri. Nelle cose dove alla giustizia, al retto giudizio,
alle retribuzioni dovute ec. nuocono i difetti o vizi de’ contemporanei in
quanto contemporanei, va bene. Ma in tutto il resto, in tutto quello che spetta
ai vizi degli uomini come uomini, o come animali depravati, non so quanto ci
gioverà quest’appellazione. Se potessimo appellare ai passati, saremmo più
fortunati, ma il costume del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il
futuro fosse peggiore del presente e del passato. Le generazioni migliori non
sono quelle davanti, ma quelle di dietro; e non c’è speranza che [307]il
mondo cambi costume, e rinculi in vece di avanzare; e avanzando già non può far
altro che peggiorare. Massime a questi tempi e costumi presenti, non par che
possa succedere nè derivare altro che tempi e costumi peggiori. Vediamo dunque
che cosa ci resti a sperare dalla posterità. V. p.593. capoverso 1.
È un
curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e
irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici,
cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in
mano de’ fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte.
Omero
che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d’esser gravido delle
regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe
stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di
regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali
come lui. E si può ben dire che l’originalità di un grande scrittore,
producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non
avrebbe servito di norma [308]e di modello) impedisce l’originalità de’
successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali
dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso
greco di eccezioni, di sillabe comuni ec. o almeno avvertire che molti esempi
di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non
sapendo il gran feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi,
adoperava le sillabe a suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la
stessa sillaba una volta lunga, e un’altra breve.
…Arew, …Arew, brotoloig¢, miaifñne,
teixesibl°ta.
Il
Parnaso latino creato dopo che gli studi aveano preso forma regolare, se non
intieramente presso i latini (quantunque la vera creazione del Parnaso latino
si possa porre nel secolo di Augusto, perchè i poeti antecedenti erano di
pochissimo conto), certo però presso i greci, dai quali tutta la letteratura
latina derivò immediatamente; non fu soggetto a questa difficoltà.
Ma la
poesia greca ebbe la disgrazia di trovarsi tutta bella e formata prima della
nascita delle regole. Dal che non solo intorno alla prosodia, ma a tutto il
rimanente, si possono [309]osservare quelle conseguenze che sono
naturali, e quelle differenze che ne dovevano nascere, rispetto alla poesia
latina.
Il
faut être bien grand pour avoir la force de ne l’être qu’à ses propres yeux.
Madame de Lambert, Portrait de M. de S. Paris 1808. à la suite des Avis d’une
mère à son fils. p.226.
Il est dans l’âge où les sentimens deviennent plus
délicats, parce qu’on échappe à l’empire des sens: dans cet âge où l’on vit
encore pour ce qui plaît, et où l’on se retire pour ce qui incommode, il jouit
des plaisirs purs. Ib.
p.227.
Di uno
sciocco che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran presunzione, e la
caccia in tutti i discorsi. Egli è propriamente l’uomo definito alla greca;
un ANIMALE logico.
Il gusto
decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie politiche, è una
conseguenza immediata e naturale, della semplice diffusione dei lumi, ed
estinzione dei pregiudizi. Perchè quando per una parte non si pensa più colla
mente altrui, e le opinioni non dipendono più dalla tradizione, [310]per
l’altra il sapere non è più proprio solamente di pochi, i quali non potrebbero
formare il gusto comune; allora le considerazioni cadono necessariamente sopra
le cose che c’interessano più da vicino, più fortemente, più universalmente. L’uomo
pregiudicato o irriflessivo, segue l’abitudine, lascia andar le cose come
vanno, e perchè vanno e sono andate così, non pensa che possano andar meglio.
Ma l’uomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, com’è possibile che essendo la
politica in relazione continua colla sua vita, non la renda l’oggetto
principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto? Nei secoli
passati, come in quello di Luigi 14. anche gli uomini abili, non essendo nè
spregiudicati, nè principalmente riflessivi, della politica conservavano l’antica
idea, cioè che stesse bene come stava, e toccasse a pensarvi solamente a chi
aveva in mano gli affari. Più tardi, gli uomini spregiudicati non mancavano, ma
eran pochi: pensavano e parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere
universale. Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono in una
certa lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il sapiente così
dappresso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione [311]colla
sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le cognizioni son proprie
di tutte le classi. Del resto, sebbene la morale per se stessa è più
importante, e più strettamente in relazione con tutti, di quello che sia la
politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una scienza puramente
speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l’azione, la pratica
della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento
della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e
non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo
mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica,
la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura
generale dello stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza tra la
morale pratica degli antichi e de’ moderni sì differentemente governati.
Oltracciò
il comune è bensì illuminato e riflessivo al dì d’oggi, ma non profondo, e
sebbene la politica domanda forse maggior profondità di lumi e di riflessioni
che la morale, contuttociò il suo aspetto e superficie offre un campo più
facile agl’intelletti volgari, e generalmente la politica si presta [312]davantaggio
ai sogni alle chimere alle fanciullaggini. Finalmente il volgo preferisce il
brillante e il vasto al solido ed utile, ma in certo modo più ristretto e meno
nobile, perchè la morale spetta all’individuo, e la politica alla nazione e al
mondo. E la superbia degli uomini è lusingata dal parlare e discutere i
pubblici interessi, dall’esaminare e criticare quelli che gli amministrano ec.
e il volgare si crede capace e degno del comando, allorchè parla della maniera
di comandare.
Alla
p.62. pensiero 1. Osservate però che c’è una differenza in questo fra la
letteratura latina e l’italiana, in quanto non le sole cognizioni filosofiche o
filologiche, le quali esigevano l’uso delle parole greche, ma tutta la
letteratura latina era derivata dalla greca. Non così l’italiana dalla
francese, eccetto nella filosofia ec. anzi per lo contrario. Sicchè l’introdur
parole greche in latino doveva essere un poco più facile e naturale. Del resto
la stessa cognazione e fratellanza ch’era tra la greca e la latina esiste tra
la lingua italiana e la francese, e se la greca si vuol considerare per
anteriore, se non altro nella formazione e sistemazione, anche la lingua
provenzale ci ha preceduto quasi nello stesso modo.
Alla
p.58. pensiero penultimo. Aggiungete che il [313]tempo di Giuliano era
tutto sofistico, e tale egli è in tutte le altre sue opere, tali sono Libanio,
Temistio ec. suoi più famosi scrittori contemporanei. Ma nessuno è sofista
quando parla di se stesso e per se stesso, e in un’occasione che mette in vero
movimento l’animo suo.
Come la
forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in fatto da
nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa
che il giovane s’inebbri facilmente della felicità, così anche dell’infelicità,
quando questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane all’allegrezza,
al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il giovane è incapace d’altra
consolazione che della morte, come ho detto p.302. Nè religione, nè ragione, nè
altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s’egli ha una certa forza d’animo, la quale tutta s’impiega in consolidare, e
fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
La
letteratura francese si può chiamare originale per la sua somma e singolare
inoriginalità.
[314]Alla p.252. La Spagna è una prova e
un esempio vivo e presente di quello ch’io dico. Nella Spagna barbara di
barbarie non primitiva ma corrotta per la superstizione, la decadenza da uno
stato molto più florido, civile, colto e potente, gli avanzi de’ costumi
moreschi ec. nella Spagna, dico, l’ignoranza sosteneva la tirannia. Questa
dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati dall’invasione
e dimora de’ francesi, e dalla rivoluzione del mondo. L’ignoranza è come il
gelo che assopisce i semi e gl’impedisce di germogliare, ma non gli uccide,
come l’incivilimento, e passato l’inverno, quei semi germogliano alla primavera.
Così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo, tornato quasi vergine ha
sentito le scosse dell’entusiasmo, e l’avea già dimostrato nell’ultima guerra.
E perciò s’è veduto quivi il contrario delle altre nazioni, come osserva l’autore
del Manuscrit venu de Sainte Hèlene, cioè che lo spirito rivoluzionario
esisteva solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati,
nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere: [315]perchè
il torpore della nazione non derivava da eccesso d’incivilimento, ma da
difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo erano all’eccesso, come altrove,
ma quanto basta e conviene, e non più. Quando la Spagna sarà bene incivilita
ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall’ignoranza, ma per lo
contrario dall’eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione, dall’egoismo
filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici. E
questa tirannia sarà tanto più durevole quanto più moderata della precedente. E
se il re di Spagna avrà vera politica dovrà promuovere a tutto potere l’incivilimento
del suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più facilmente e più
presto). E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come si crede
comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà quello che ha perduto.
Non c’è altro stato intollerante di tirannia, o capace di esserne esente,
fuorchè lo stato naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com’è ora
quella della Spagna, com’era quella de’ Romani ec. Atene e la Grecia quando
furono sommamente civili, non furono mai libere veramente.
[316]Teofrasto notato dagli antichi per
uomo laboriosissimo e infaticabile negli studi, venuto a morte nell’estrema
vecchiezza per l’assiduità dello scrivere, secondo ch’è riferito da Suida, e
interrogato dagli scolari se lasciasse loro nessun precetto o ricordo, rispose,
Nient’altro se non che l’uomo disprezza molti piaceri a causa della gloria. Ma
non così tosto incomincia a vivere che la morte gli sopravviene. Però l’amor della
gloria è così svantaggioso come checchessia. Vivete felici, e lasciate gli
studi che vogliono gran fatica, o coltivategli a dovere, che portano gran fama.
Se non che la vanità della vita è maggiore dell’utilità. Per me non è più tempo
a deliberare: voi altri considerate quello che vada fatto. E così dicendo
spirò. (Queste sono le sue proprie parole come le riporta il Laerzio, in
Theophrasto l.5 segm.41.)
Del
rimanente mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più di qualunque
altro, amando la gloria e gli studi, sentisse peraltro l’infelicità inevitabile
della natura umana, l’inutilità de’ travagli, e soprattutto l’impero della
fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo
e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto [317]meno
profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere
il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se
medesime alla felicità. Laonde Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi
incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo
faceva parlare. Vexatur Theophrastus et libris et scholis omnium philosophorum,
quod in Callisthene suo laudarit illam sententiam: Vitam regit fortuna non
sapientia. Cic. Tuscul. 3. et 5. (vedilo perchè contiene qualche altra cosa).
Quod maxime efficit Theophrasti de beata vita liber, in quo multum admodum
fortunae datur. Id. de Finibus l.4. Neanche ha ottenuto dai moderni quella
stima che meritava, essendo smarrite quasi tutte le sue moltissime opere, nè
restando altro che alcune fisiche, eccetto i Caratteri; e io credo di essere il
primo a notare che Teofrasto essendo filosofo e maestro di scuola (e scuola
eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò ad Epicuro, e certamente non
Epicureo nè per vita nè per massime, si accostò forse più di qualunque altro
alla cognizione di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno
veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che
solamente a’ dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale. Ma
così anche si vede che Teofrasto conoscendo le illusioni, non però [318]le
fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le
amava, anzi si faceva biasimare dagli altri antichi filosofi, appunto perchè
onorava le illusioni molto più di loro. Itaque miror quid in mentem [venerit]
Theophrasto in eo libro quem De divitiis scripsit: in quo multa praeclare,
illud absurde. Est enim multus in laudanda magnificentia et apparatione
popularium munerum, taliumque sumtuum facultatem, fructum divitiarum putat.
Cic. de offic.
Così si
vede che appunto chi conosce e sente più profondamente e dolorosamente la
vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica più di tutti gli altri, come
Rousseau, la Staël ec.
Che se
Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo
stesso è una prova di quanto le avesse amate perchè non si ripudia quello che
non s’è mai amato, nè si abbandona quello che non s’è mai seguito. Nè si mente
senza vantaggio in punto di morte ec.
[319]Sovente ho desiderato con
impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso
bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza, e guastarlo coll’aspettativa.
E questa tale impazienza, ho osservato che non veniva da riflessione, ma
naturalmente, nel tempo ch’io andava fantasticando e congetturando sopra quel
bene o diletto. E così anche naturalmente proccurava di distrarmi da quel
pensiero. Se però l’abito generale di riflettere, o vero l’esperienza e la
riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la cognizione della
vanità dei piaceri, e la diffidenza dell’aspettativa, non operavano allora in
me senz’avvedermene, e non mi parvero natura.
(11 Nov. 1820.)
Dice
Quintiliano l.10. c.1. Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam
inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo ogni bellezza
principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall’affettazione
o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di
esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro alla
maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto sia difficile una buona
traduzione in genere di bella letteratura, [320]opera che dev’esser
composta di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie.
E similmente l’anima e lo spirito e l’ingegno del traduttore. Massime quando il
principale o uno de’ principali pregi dell’originale consiste appunto nell’inaffettato,
naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere
spontaneo. Ma d’altra parte quest’affettazione che ho detto è così necessaria
al traduttore, che quando i pregi dello stile non sieno il forte dell’originale,
la traduzione inaffettata in quello che ho detto, si può chiamare un
dimezzamento del testo, e quando essi pregi formino il principale interesse
dell’opera, (come in buona parte degli antichi classici) la traduzione non è
traduzione, ma come un’imitazione sofistica, una compilazione, un capo morto, o
se non altro un’opera nuova. I francesi si sbrigano facilmente della detta
difficoltà, perchè nelle traduzioni non affettano mai. Così non hanno
traduzione veruna (e lasciateli pur vantare il Delille, e credere che possa mai
essere un Virgilio), ma quasi relazioni del contenuto nelle opere straniere;
ovvero opere originali composte de’ pensieri altrui.
[321]Una delle prime cagioni della
universalità della lingua francese, è la sua unicità. Perchè la lingua italiana
(così sento anche la tedesca, e forse più) è piuttosto un complesso di lingue
che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e
caratteri degli scrittori ec. che quei diversi stili paiono quasi diverse
lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole. Dante - Petrarca e
Parini ec. Davanzati - Boccaccio, Casa ec. V. p.244. Dal che come seguono
infiniti e principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi. 1. che lo
straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e
passando a un altro, non l’intende. (Così nei greci) 2. che potendosi scrivere
o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec. lo scrittore italiano
volgare scrive ordinariamente malissimo; così il parlatore ec. Al contrario del
francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla
francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi scrivono e parlano
elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al più e il meno, le
differenze sono così piccole, [322]che se i francesi le sentono nei loro
diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove le differenze
de’ buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia. Così anche dei
greci.
E notate
di passaggio che la lingua latina ha una strada molto più segnata e definita, e
rassomiglia in questo alla francese. La cagione è che la lingua latina scritta,
fu opera dell’arte (onde il volgar latino differiva sommamente dal letterale)
come è noto, e come dimostra a prima vista la sua artificiosissima e
figuratissima costruzione. Laddove la forma della lingua greca e italiana fu
opera della natura, vale a dire che ambedue queste lingue si formarono prima
della nascita, o almeno della formazione e definizione delle regole, e prima
che gli scrittori fossero legati da’ precetti dell’arte. Così la natura è
sempre varia, e l’arte sempre uniforme, o se non altro sommamente inferiore
alla natura in varietà.
In somma
lo straniero e il francese parla facilmente bene la sua lingua, dove la varietà
non genera confusione o difficoltà all’imperito.
[323]E l’unicità della lingua francese,
e la moltiplicità dell’italiana apparisce più chiaro che mai dalla facoltà
rispettiva nelle traduzioni. La lingua tedesca ancora, passa per sommamente suscettibile
di prendere il carattere e la forma di qualunque lingua, scrittore, e stile, e
quindi per ricchissima in traduzioni vivamente simili agli originali. Non so
peraltro se questa facoltà consista veramente nello spirito dello stile, o
solamente nel materiale, come par che dubiti la Staël nell’articolo sulle
traduzioni.
Il fatto
sta che i francesi vantandosi dell’universalità della loro lingua si vantano
della sua poca bellezza, della sua povertà, uniformità, ed aridità, perchè s’ella
avesse quanto si richiede per esser bella, e se fosse ricca e varia, e se non
fosse piuttosto geometria che lingua, non sarebbe universale. Ma il mondo se ne
serve come delle formole o dei termini di una scienza, noti e facili a tutti,
perchè formati sullo sterile modello della ragione, o come di un’arte o scienza
pratica, di una geometria, di un’aritmetica, ec. comuni a tutti i popoli,
perchè tutti dalle stesse maggiori deducono le stesse conseguenze.
[324]Dalle sopraddette considerazioni
osserverai quanto sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono
che in Francia da Luigi 14. in poi non si disputa più della lingua, e si scrive
bene, laddove in Italia si disputa sempre della lingua e si scrive male. Prima
di Luigi 14. quando la lingua francese non era ancora geometrizzata, e ridotta
a una processione di collegiali, come dice Fénélon, siccome si poteva scriver
meglio di adesso, così anche si potea scriver male.
Demetrio Falereo tÇn
tetufvm¡nvn ŽndrÇn ¦fh tò m¢n ìcow deÝn periaireÝn, tò d¢ frñnhma
katalipeÝn. (Laerz. in
Demetr. l.5. seg.82.). Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat circumcidi
oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere. Così l'interprete
benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune parole dello
stesso segm. poco addietro.
Toçw fÛlouw ¢pÜ m¢n tŒ ŽgaJŒ
parakaloum¡nouw Žpi¡nai, ¢pÜ d¢ tŒw sumforŒw, aétom‹touw. (subint. deÝn, quod est in superioribus) Detto
dello stesso, appo il Laerz. l.c. segm.83.
Il
vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore. Dunque il
vigore; dunque la natura.
A quello
che ho detto poco sopra di Teofrasto, [325]aggiungi i suoi Caratteri,
dove com’è noto, e forse superiormente a qualunque scrittore antico,
massimamente greco e prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del
cuore umano. Ora chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la
vanità delle illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più che la base di
questa scienza è la sensibilità e suscettibilità del proprio cuore, nel quale
principalmente si esamina la natura dell’uomo e delle cose. (V. quello ch’io
dirò in questi pensieri intorno al Massillon). Del rimanente Teofrasto liberò
due volte la sua patria dalla tirannide. Plutarco, adversus Colot. in fine.
p.1126. f. Non se n’ha altra testimonianza che questa, come apparisce dal
Fabricio.
Come i
più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne conoscono e
sentono più vivamente e universalmente la vanità, così i loro più ardenti
impugnatori son quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non
la sentono intimamente e in tutta l’estensione della vita; cioè la conoscono in
teoria, ma non in pratica. Tali sono gli spregiudicati e gl’intolleranti filosofici
de’ nostri giorni. [326]Perchè se la conoscessero e sentissero, e ne
comprendessero tutta l’immensa estensione, se ne spaventerebbero, la mancanza
di esse illusioni torrebbe loro quasi il respiro, cercherebbero di rifugiarsi
un’altra volta nel seno dell’ignoranza o dimenticanza del vero, e del
crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli alienerebbe, anzi li
ricondurrebbe alla religione), di richiamar l’attività ec. Se non altro non
sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni, non cercherebbero gloria
nel dimostrar la vanità di tutte le glorie, non porrebbero molta importanza nel
dimostrare e persuadere che nulla importa, e per conseguenza neanche questa
dimostrazione.
Dicono
che la felicità dell’uomo non può consistere fuorchè nella verità. Così
parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è
diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la
felicità consiste nell’ignoranza del vero. E questo, appunto perchè il mondo è
diretto alla felicità, e perchè la natura ha fatto l’uomo felice. Ora essa l’ha
fatto anche ignorante, come gli altri animali. Dunque l’avrebbe fatto [327]infelice
esso, e le altre creature; dunque l’uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure
le altre creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari
moltissimi secoli perchè l’uomo acquistasse il complemento, anzi il principale
dell’esistenza, ch’è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all’intiera
cognizione nel vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente
infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì;
dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione
del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl’individui) sono
usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura.
E la
perfezione consiste nella felicità quanto all’individuo, e nella retta
corrispondenza all’ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo
quest’ordine in un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l’ignoranza
è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E
se la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè,
supponendo che l’abbia posta riguardo all’uomo nella cognizione del vero, ha
nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a
discoprirlo? [328]Non sarebbe questo un vizio organico, fondamentale,
radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così difficile il
solo mezzo di ottener quello ch’ella voleva soprattutto, e si prefiggeva per
fine, cioè la felicità? e la felicità dell’uomo, il quale tiene evidentemente
il primo rango nell’ordine delle cose di quaggiù? Come ha ripugnato con ogni
sorta di ostacoli a quello ch’ella cercava? Ma l’uomo dovea ben tenere il primo
rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come
brutale; non però dovea mettersi in un altr’ordine di cose, e considerarsi come
appartenente ad un’altra categoria, e porre la sua dignità, non nel primeggiare
tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente
fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e indipendenti dalle
leggi universali della natura.
È
osservabile nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la naturalezza dei
primi che combattevano nella lotta nel corso ec. appresso a poco coi soli
istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti
artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giuochi, [329]diretti
presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini,
sentimenti ec.: presso gli altri o al semplice sollazzo, o all’addestramento
militare. Così che quelli andavano alla sorgente universale delle grandi
imprese, questi si fermavano ad un mezzo particolare. E questa differenza è
anche più notabile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini
liberi per amor di gloria. Quindi l’effetto favorevole all’entusiasmo, l’eccitamento,
l’emulazione, gli esercizi preparatorii ec. Gli spettacoli romani erano
eseguiti da’ servi. Quindi non altro effetto utile che l’avvezzar gli occhi e l’animo
agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale e secondaria, non
generale e primitiva come l’altra. Nel che forse si potrà anche notare la
differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero bensì, ma non
padrone, se non di se stesso, com’era il greco. V. p.360. capoverso 2.
Quello
che ho detto altrove della necessità di una persuasione per le grandi imprese,
è applicabile soprattutto alla massa del popolo, e combina con quello che dice
Pascal che l’opinione è la regina [330]del mondo, e gli stati dei popoli
e i loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono da lei. 1. Le passioni son
varie, l’opinione è una, e il popolo non può esser mosso in uno stesso senso,
se non da una cagione comune e conforme. 2. L’individuo potrà essere
strascinato dalle sue illusioni, o conoscendole per tali, e nondimeno
seguendole (cosa impossibile al popolo, giacchè il capriccio, o un entusiasmo
non fondato sopra basi vere o false, ma stabili, non può essere universale);
ovvero non conoscendole; e questo è più difficile al popolo, perchè la cosa più
varia è l’illusione, la più uniforme e costante è la ragione, e perciò il
popolo ha bisogno di un’opinione decisa, non dico vera, ma pur logica, e
apparentemente vera, in somma conseguente e ragionata, perchè tutto il
resto non può essere un movente universale. Così Maometto produsse i
cangiamenti, e spinse gli Arabi alle imprese, che tutti sanno. Così Lutero
cagionò le guerre della riforma; così gli Albigesi ec. così i Martiri sparsero
il sangue pel Cristianesimo, così gli antichi morivano per la patria e la
gloria. V. in questo proposito il principio del Capo 1. dell’Essai sur l’indifférence
en matière de Religion.
[331]Quello ch’io dico della filosofia
de’ romani, e in genere di ogni filosofia, si conferma dall’esser cosa già
osservata che la religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, in
quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba. (Essai
sur l’indifférence en matière de Religion. nelle prime linee del Capo 2. E poco dopo il principio del C.1.
dopo aver detto che la filosofia greca, tanto temuta da Catone, e nondimeno
insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di Roma vincitrice del
mondo, soggiunge ch’è un fatto degno della più seria considerazione che
tutti gl’imperi, la cui storia è da noi conosciuta, e che erano stati
consolidati dal tempo e dalla prudenza, si videro rovesciati dai Sofisti.
Nel capo secondo si estende maggiormente in provare che la filosofia fu la
distruttrice di Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di
attribuire la caduta di quest’impero alla filosofia di Epicuro, aggiungendo
in nota che Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente come
Montesquieu: «L’obblio ed il disprezzo della Religione furono la cagione
principale dei mali che [332]provò Roma in seguito: la Religione
e lo Stato decaddero nella medesima proporzione.». T.4 p.428.). Colla
differenza che laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati
sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall’errore, io dico che
sono stabiliti e conservati dall’errore, e distrutti dalla verità. La verità
non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il
tempo e l’esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori
del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero. E chi considera le
cose al rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane. Questo è il
controsenso fondamentale in cui è caduto l’autore sopracitato. Egli avrebbe
difesa molto meglio la Religione se l’avesse difesa non come dettame dell’intelligenza,
ma come dettame del cuore. E quando egli dice che dunque l’esistenza e la
felicità, la perfezione e la vita dell’uomo sarebbero contro natura, perchè la
natura è il complesso delle perpetue verità, s’inganna, perchè la natura è il
complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch’esiste sia vero, ma non
tutto quello ch’è vero sia conosciuto da ciascuna delle di lei parti. Ed una di
queste verità che son comprese [333]nel sistema della natura, è che l’errore
e l’ignoranza è necessaria alla felicità delle cose, perchè l’ignoranza e l’errore
è voluto, dettato, e stabilito fortemente da lei, e perch’ella in somma ha
voluto che l’uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l’ha fatto. E non perchè
l’uomo ha voluto speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva anzi
poteva fare naturalmente, perciò è meno vero ch’egli doveva ignorare quello che
ha scoperto, e che la sua felicità sarebbe stata vera, se egli avesse
errato, e ignorato quelle verità che così considerate riescono indifferenti all’uomo,
e che la natura ha seguite (ma segretamente) nel suo sistema, perchè gli erano
necessarie, (16. Nov. 1820.) o perchè così gli è piaciuto.
La
natura può supplire e supplisce alla ragione infinite volte, ma la ragione alla
natura non mai, neanche quando sembra produrre delle grandi azioni: cosa assai
rara: ma anche allora la forza impellente e movente, non è della ragione ma
della natura. Al contrario togliete le forze somministrate dalla natura, e la
ragione sarà sempre inoperosa e impotente.
[334]Non c’è uomo costituito in carica o
dignità, il quale confessi di averla cercata, e non dica o voglia fare
intendere d’esserne stato rivestito spontaneamente, anzi contro sua voglia ec.
Gl’incarichi, le dignità, gli onori, ciascuno li cerca, e nessuno gli ha
cercati.
Laerzio, Vit. Speusippi,
l.4, seg.2, dice di Speusippo: Oðtow prÇtow, kaJ‹
fhsi Diñdvrow ¤n Žpomnhmoneum‹tvn prÅtÄ, ¤n toÝw maJ®masin
¤Je‹sato tò ko-inñn kaÜ sunÄkeÛvse kaJ€ ôson ¸n dunatòn Žll®loiw. Questo è notabile nei progressi
dello spirito umano. Ma non so quanto sia vero perchè Platone aveva già riunite
e legate nel suo sistema filosofico la fisica (compresa l'astronomia), la
metafisica, la morale, la politica e le matematiche. È noto fra le altre cose
il motto della sua scuola: non entri nessuno se non è geometra. V. la nota
d'Is. Casaubono al detto passo.
(17. Nov. 1820.)Ripetono spesso gli apologisti
della Religione che il mondo era in uno stato di morte all’epoca della prima
comparsa del Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva
impossibile. Quindi [335]conchiudono che questo non poteva essere
effetto se non dell’onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità,
che l’errore perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello
che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo
salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch’egli
produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti
effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso s’egli sia vero o
falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore. Ma come si
stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai
governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una
grande illusione trionfa di tutto. Non ha considerato menomamente il cuore
umano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace, quando anche contrastino
ai suoi interessi, e come egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica
visibilmente. Quante pene corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti
dell’India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata sui principii del
Cristianesimo, che illusione era? E i sacrifizi infiniti che facevano gli
antichi filosofi p.e. i Cinici alla professione della loro setta, spogliandosi
di tutto il loro nella ricchezza ec.? E il sacrifizio de’ 300. alle Termopili?
Ma come [336]trionfò il Cristianesimo della filosofia, dell’apatia che
aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non erano 1. nè
stabili, definiti e fissi, 2. nè estesi e divulgati, 3. nè profondi come ora;
conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del commercio
universale, delle scoperte geografiche, che non lasciano più luogo a nessun
errore d’immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la mano in
modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere
influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a spegnere l’error
grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si
prestavano ad un error sottile. E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava
al metafisico, all’astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei
tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch’esso
astratto e metafisico. L’Oriente poi, non solo allora, ma antichissimamente,
aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e verità, nella
morale e nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A distrugger l’error
più [337]sottile vi volevano lumi molto più profondi, sottili e
universali di quelli d’allora. Tali sono quelli d’oggidì, così perfetti che
sono interamente sterili d’errore, e da essi non può derivare error più
sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita al mondo. Ai mali
della filosofia presente, non c’è altro rimedio che la dimenticanza, e un
pascolo materiale alle illusioni.
Del
resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito dal sapere, ma
siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un errore nato dai lumi,
e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e la forza ch’ei diede al
mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato riceve da’ liquori
spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice di maggior
debolezza. Applicate quest’osservazione 1. alla poca durata della vera e
primitiva forza del Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell’infinita
durata della forza degl’istituti e religioni antiche, p.e. presso i romani. 2.
alla qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec. in paragone della
freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec. della vita antica:
conseguenza naturale della [338]differenza dei dogmi. 3. all’aspetto
lugubre che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la propagazione intera
del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo fuoco febbrile della nuova
dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera che si può dire che il
mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse infinitamente se non a
cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della tendenza che lo produsse e
doveva produrlo, e dopo la sua introduzione: giacchè prima restavano ancora
molti errori più naturali, e quindi più vitali e nutritivi, non ostante la
filosofia.
(17. Nov. 1820.)
Un
pensiero degno di essere sviluppato intorno alla perpetua superiorità degli
antichi sopra i moderni a causa della maggior forza della natura, per anche non
corrotta, o meno corrotta, sta nelle notes historiques de l’Éloge historique
de l’Abbé de Mably, par l’abbé Brizard, avanti le Observations sur l’hist.
de France. Kehll. 1789. t.1. p.114. Note II.
(17. Nov. 1820.)
Alla
p.271. pensiero ult. Tale era l’idea che gli antichi si formavano della
felicità ed infelicità. Cioè l’uomo privo di quei tali vantaggi della vita [339]benchè
illusorii, lo consideravano come infelice realmente, e così viceversa. E non si
consolavano mai col pensiero che queste fossero illusioni, conoscendo che in
esse consiste la vita, o considerandole come tali, o come realtà. E non
tenevano la felicità e l’infelicità, per cose immaginare e chimeriche, ma
solide, e solidamente opposte fra loro.
Il Laerzio Vit. Platon.
l.3. seg.79-80. dice di Platone. ƒEn d¢ toÝw dialñgoiw kaÜ t¯n dikaiosænhn Jeoè
nñmon êpel‹mbanen, (arbitratus est.
Interpr.) Éw Þsxurot¡ran protr¡cai tŒ dÛkaia pr‹ttein, ána m¯
kaÜ metŒ J‹naton
dÛkaw êpñsxoien oß kakoèrgoi. ÷Jen kaÜ
muJikÅterow ¢nÛoiw êpel®fJh, toÝw suggr‹mmasin ¤gkatamÛjaw tŒw toiaætaw dihg®seiw, (narrationes. Interpr.) ôpvw
diŒ toè Žd®lou trñpou
toè ¦xein tŒ metŒ tòn J‹naton, (ut, quod incertum sit ista post mortem sic se
habere, ad moniti mortales etc. Interpr. ma non bene) oìtvw
Žp¡xvntai tÇn Ždikhm‹tvn.
Alla
inclinazione degli uomini di partecipare altrui il piacere e il dolore, notata
in altri pensieri, si dee riferire in gran parte la smania (attribuita
principalmente alle donne, e propria soprattutto de’ fanciulli, insomma degli
uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto [340]o la cosa che
si dovrebbe, e spesso anche d’altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar
subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore un dolore una noia
provata ec. e tutta la loquacità che appartiene al riferire, (20. Nov. 1820.) o al
dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec. come i fanciulli non si
possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.
In somma
considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione
incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell’antichità.
Cominciando dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni, come dicea
quel francese, e dalle piramidi di Egitto ec. discendete alle imprese
nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità
delle loro costruzioni fatte per l’eternità (cosa propria anche de’ tempi
bassi, e fino al cinque o secento), alla profondissima impronta delle monete,
all’eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i
romani ec. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come
l’uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest’ultimo grado
di piccolezza generale e individuale, e d’impotenza in cui lo vediamo oggidì.
In maniera che l’eterna fonte del grande (come del bello) sono gli scrittori,
le opere d’ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli antichi; e
degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de’ nostri tempi. (V. p.338.
capoverso 1.) Che segno è questo? La ragione ingrandisce o [341]impiccolisce?
La natura era grande o piccola?
Una
grandissima e universalissima fonte di errori, controsensi, oscurità, sviste,
contraddizioni, dubbi, confusioni ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi
che modernissimi, è il non aver considerata, e definita, e posta nelle basi del
sistema dell’uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della natura. Posta
la quale, che è tanto evidente, e universale, si rischiarano, e determinano, e
risolvono infiniti misteri e problemi nell’ordine e composto delle cose umane.
Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello, i progressi dell’intelligenza
coi progressi della felicità e col perfezionamento dell’uomo, le nozioni e la
natura dell’utile, il fine o scopo dell’intelligenza (ch’è la verità) col fine
e scopo vero dell’uomo e della natura sua ec. non si viene mai a capo di
diciferare il mistero dell’uomo, e di accordare le infinite contraddizioni che
par che s’incontrino in questa principalissima parte del sistema universale,
cioè in quella che riguarda la nostra specie. Il combattimento della carne e
dello spirito, dei sensi e della mente, notato già dagli scrittori, massimamente
religiosi, o non è sufficiente, o non e stato bene inteso ed applicato, [342]ed
esteso quanto doveva; o è stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene
conseguenze della stessa specie. ec. ec. ec.
(20. Nov. 1820.)
Il
lavoro della terra era la principal fatica e occupazione destinata all’uomo.
Ora è curioso l’osservare che la parte più oziosa della società è appunto
quella la cui sostanza consiste in terre.
Quanto
sia vero che i doveri e la morale determinata, non provengano da legge naturale
nè sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche
vedere per questo esempio. Il rispetto e l’immunità degli araldi, considerati
antichissimamente come persone sacre e inviolabili, e da Omero chiamati cari a
Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e l’abitudine ce la
fa riguardare come un dover naturale. Ora mettiamoci coll’immaginazione nello
stato di natura, e vedremo che l’uomo non ha nessuna ripugnanza di far male al
suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l’hanno gli altri
animali, perchè il nemico è sempre nemico, e l’uomo inclina a nuocergli quanto
e come e quando e dove mai possa. Così che l’inviolabilità degli araldi non è
fondata sull’istinto, non è insegnata dalla natura, ma è legge [343]di
pura convenzione, cagionata dall’utilità e necessità sua, utilità e necessità
riconosciuta dalla ragione e per via d’argomento, non istillata e ingenita
negli animi dalla natura senza bisogno di riflessione. E così il diritto delle
genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio, che contiene una
legge di pura convenzione, la quale prima ch’esistesse, non era colpa il
contravvenirle, come si sarà mille volte fatto. In questo proposito ecco alcune
parole dell’Essai sur l’indifférence en matière de religion, alquanto dopo la
metà del Capo 4. Diciamolo pure, giacchè non v’ha verità più sconosciuta e
più importante: la Religione dei popoli è tutta la loro morale. Questo (per
notarlo di passaggio) dopo aver nei capi precedenti voluto provar la religione
colla morale, come fondamento di essa morale, e deriso Hobbes che toglie la
coscienza, e dice che in natura non ci sono doveri. E qui viene a dire che la
morale non si può provare se non colla religione. In ogni modo puoi veder gli
esempi ch’egli adduce prima e dopo il detto luogo, per dimostrare la varietà
delle coscienze, secondo la varietà delle religioni.
La
lingua italiana non si è mai tolto il potere di adoperar quelle parole, frasi,
modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però intesi da tutti senza
difficoltà, e possano [344]cadere nel discorso senza affettazione: i
quali sono infiniti per chi conosce la lingua, ma bene a fondo; e questi sono
pochissimi o nessuno. La lingua francese si è spogliata affatto di questa
facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli e modi nuovi (intorno ai quali si
sgridano gl’italiani perchè non gli ammettono) non si è legate le mani se non
per gli antichi, cioè per quelli ch’ella già possedeva, e ha creduto di far
progressi quando ha perduto l’infinito che aveva (giacchè veramente era ricca),
e guadagnato il poco che non aveva. Nel che 1. io non vedo come una lingua si
possa accrescere, perchè anche in parità di partite, se quanto si guadagna,
tanto si perde, la lingua sarà sempre stazionaria in fatto di ricchezza e
varietà. 2. se, com’è certissimo, infinite cose che non si sono potute
esprimere se non con parole nuove, forestiere ec. si potevano esprimere colle
antiche, io non vedo perchè queste dovessero esser posposte. Il caso è lo
stesso in Italia, chi ben considera la ricchezza immensa de’ nostri antichi
scrittori. 3. Le parole e modi che maggiormente conferiscono alla evidenza,
efficacia, forza, grazia ec. delle lingue sono sempre, e incontrastabilmente le
antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso dalla natura, e dall’oggetto
significato (come deve necessariamente accadere nella formazione delle lingue),
e però lo rappresentavano al [345]vivo, e ne destavano più fortemente,
sensibilmente, facilmente e prontamente l’idea, secondo però 1° i diversi
aspetti o parti più o meno vivi, principali, caratteristici, esprimibili; il
diverso numero di aspetti, parti, o relazioni della cosa, considerato dagl’inventori
della parola: 2° la diversa forza d’immaginazione, sentimento, delicatezza ec.
nei detti inventori: 3° la diversa loro facoltà di applicare il suono alia
cosa: 4° il diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali,
morali, politiche, geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l’asprezza, la
ruvidezza o gentilezza ec. 5° la diversa impressione prodotta dagli stessi
oggetti ne’ diversi popoli o individui. Solamente quella grazia che non deriva
dalla naturalezza, semplicità ec. l’eleganza ec. può guadagnare; ma quella che
deriva dai detti fonti, (massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più
solida e durevole; la forza poi assolutamente, l’evidenza e l’efficacia, non
possono altro che perdere infinitamente coll’abolizione delle parole antiche, e
peggio colla sostituzione delle nuove. Qui ancora ha luogo la grande
inferiorità dell’arte e della ragione alla natura, in tutto il bello, il
grande, il forte, il grazioso ec.
(21. Nov. 1820.)
Tutte le
cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi: lo dice Omero, lo
vediamo tuttogiorno. La monotonia è insoffribile. Ma un grande e forse sommo
rimedio di questo male, è lo scopo. Quando l’uomo si [346]propone uno
scopo o dell’azione, o anche dell’inazione, trova diletto anche nelle cose non
dilettevoli, anche nelle spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia; e
quanto alle cose dilettevoli, l’uniformità e durata loro non nuoce al piacere
di chi le dirigge a un fine. Io non credo che per altra più capitale,
universale ed intima ragione, gli studi sieno agli studiosi come un’eccezione
dalla regola generale, cioè la continuazione di essi non pregiudichi quasi mai
al piacere. Vedete tutto giorno delle persone che non leggono per altro fine
che di passare il tempo, trovar gran diletto nelle prime pagine di un libro, e
non poterne arrivare al fine senza noia, quando anche quel libro abbia per se
stesso tutti i mezzi per dilettare in seguito come nel principio. Ma l’uniformità
del diletto, senza uno scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò queste
tali persone che leggono per solo divertimento, si stancano così presto, che
non sanno concepire come nella lettura si trovi tanto divertimento, e cercano
del continuo di variare e passare nauseosamente da un libro a un altro, senza
trovar mai diletto in veruno, se non lieve e passeggero. Al contrario lo studioso
che della lettura si prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse per ozio
e passatempo. E così tutte le altre occupazioni [347]a cui l’uomo si
affeziona, applicandoci un interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più
o meno grave e importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia
non arrivano mai ad annoiare.
Le buone
poesie sono ugualmente intelligibili agli uomini d’immaginazione e di
sentimento, e a quelli che ne son privi. E contuttociò quelli le gustano, e
questi no, anzi non comprendono come si possano gustare, primieramente perchè
non sono capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec. dal poeta; e
oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non intendono la verità, l’evidenza
di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro che quelle passioni, quegli
effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta descrive, vanno veramente così:
e per tal modo le parole del poeta, benchè chiare, e da loro bene intese non
rappresentano loro quelle cose e quelle verità che rappresentano altrui, ed
intendendo le parole, non intendono il poeta. Bisogna bene osservare che questo
accade anche negli scritti filosofici, profondi, metafisici, psicologici ec.
affine di non maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi effetti
che producono in diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto in
cui son tenuti. Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo di
verità, e composto con [348]tutta quella chiarezza d’espressioni, della
quale possa mai esser suscettibile. Le parole dicono lo stesso all’uomo
profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale
dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l’autore
vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come si crede
comunemente. Perchè l’uomo superficiale; l’uomo che non sa mettere la sua mente
nello stato in cui era quella dell’autore; insomma l’uomo che appresso a poco
non è capace di pensare colla stessa profondità dell’autore, intende
materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col
vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l’autore
scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch’egli vedeva, e dai
quali deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli somigli
sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le
stesse cose, ma non conosceranno nè sentiranno che abbiano relazione insieme, e
con quelle conseguenze che l’autore ne cava; non vedranno la relazione
scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un
sillogismo): brevemente, intenderanno appuntino lo scritto, e non capiranno la
verità di quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da
altri. Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare, e sentire
la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura
o l’abito danno per certe. Non basta intendere una proposizion vera, bisogna
sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’
sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la
sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità,
perchè non ne prova il senso, cioè la persuasione. In questo numero di persone
va posta la maggior parte dei moderni apologisti della religione, uomini senza
cuore, senza sentimento, senza tatto fino e profondo nelle cose della natura,
insomma senza esperienza della verità, come quei lettori de’ poeti che sono
senza esperienza di passioni, entusiasmo, sentimenti ec.; i quali, [349]posto
che intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che
combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno
nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e
sentirete ch’è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi, e quasi
ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d’immaginazione,
e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni
dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di situazione, in cui egli
si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti non troverete mai
ch’egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto. E ciò, tanto
quando in voi ne debba risultare la persuasione e l’assenso allo scrittore,
quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo non ho trovato mai
oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per
oscurissimi. (22 Nov. 1820.)
L’Essai
sur l’indifférence en matière de religion, alquanto dopo il principio del capo
V. nel luogo dove tratta delle origini storiche del Deismo, dimostra i neri
presentimenti che agitavano i Capi della Riforma intorno al futuro stato delle
opinioni, della religione, e dei popoli. Buon Dio, qual tragedia,
esclamava uno di essi, vedrà mai la posterità! Pur troppo bene. Essi
cominciavano [350]a sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva
della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono il
grande, e di tutta la vita; l’opera micidiale e le stragi di quella ragione e
filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista
devastazione in Germania, patria del pensiero, (come la chiama la Staël) non
inducendo gli uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne
alcuni punti, per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e
all’abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari. I lumi cagionati dal
risorgimento delle lettere, erano appunto allora giunti a quel grado che
bastava per cominciare l’infelicità e il tormento di un popolo, al quale la
natura era stata meno larga dei mezzi di felicità, che sono l’immaginazione
ricca e varia, e le illusioni. Ne avevano naturalmente quanto bastava (e così
gl’inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi germani ai tempi de’ Bardi e di
Tacito), ma non tanti, nè tanto forti da resistere ai lumi così lungamente,
come i paesi meridionali, e soprattutto (la Spagna e) l’Italia, dove anche
oggidì si vive poco, è vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e
sociale delle illusioni, ma si pensa anche ben poco.
La
Spagna s’è trovata finora nello stesso caso. Il suo clima, e la situazione
geografica, e il governo ec. [351]proteggevano le illusioni come in
Italia, senza però lasciarnela profittare, nè proccurarsene punto di vita,
massime esterna e sociale.
A tutto
quello che ho detto di Teofrasto, si può aggiungere come altra cagione della
qualità che ho notato in lui, il suo sapere enciclopedico, che apparisce dal
catalogo delle sue opere, la massima parte perdute. Il qual sapere, e la quale
speculazione intorno ad ogni genere di scibile, egli non lo faceva servire,
come Platone, all’immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul
brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere
delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza. Nel qual caso l’estensione,
e varietà del sapere, influisce necessariamente sulla profondità dell’intelletto,
e il disinganno del cuore.
In somma
conviene che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se stessa non
importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro, anzi
soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non riponga l’utilità
in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano ec. la vita, considerata
quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono [352]un
bene, cioè felice da vero. Ma felice da vero non la rende altro che il falso,
ed ogni felicità fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità
si trova falsa e vana, quando l’oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella
sua realtà e verità.
Ho
veduto le lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland, dell’arte di prolungare la
vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch’egli occupava, dedicata
espressamente a quest’arte. Prima bisognava insegnare a render la vita felice,
e quindi a prolungarla. Infelicissima com’è, stimerei molto più chi m’insegnasse
ad abbreviarla, perchè non ho mai saputo che sia degno di lode, e giovi al
pubblico colui che insegna a prolungare l’infelicità. In vece di fondare queste
cattedre che sono al tutto straniere anzi contrarie alla natura dei tempi, i
principi dovrebbero proccurare che la vita dell’uomo fosse più felice, ed
allora saremmo grati a chi c’insegnasse a prolungarla. Se la durata fosse un
bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente
in qualunque caso.
Nominando
i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni antichi, i nostri buoni antichi.
Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi, tanto i
vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani che perciò li disprezzano. Il
certo [353]è che il mondo in questo non s’inganna: il certo è che, senza
però pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento. E
ciò non solamente con questa frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur
gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l’andare
sempre più avanti, e per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene
per indubitato, che avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non
avanzando; e stimerebbe di esser perduto retrocedendo.
Quanto
anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se
non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si
può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di
famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella
credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non
compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava
intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza
pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi
più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354]età, non
pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma
gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si
rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era
esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima
desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che
provava nell’interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o
ragguagli di miglioramento. Vedendo ne’ malati qualche segno di morte vicina,
sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli
che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un
giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco
savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e
vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma
di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro
difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla
vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi
riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto poteva
colle parole e coll’opinion sua i loro successi (tanto de’ brutti quanto de’
belli, perchè n’ebbe molti), e non lasciava [355]passare anzi cercava
studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro
difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro
inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi
successi de’ suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione,
e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro
disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell’anima, e nello stesso
modo si regolava in tutto quello che spetta all’educazione dei figli, al produrli
nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva
infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali
o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le
più compassionevoli de’ giovanetti estinti nel fior dell’età, fra le più belle
speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano
in verun modo. Perchè diceva che non importa l’età della morte, ma il modo: e
perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la
religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di
queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla
natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola
religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che
un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei [356]principii
di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si
vanta per la più misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque
ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio
ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro.
Così vediamo le tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero
figlie dell’immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo
evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di
sopra. Non c’è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli
errori ch’ella ispira, e dove la ragione non entra. S’ella ci fa piangere la
morte dei figli, non è che per un’illusione, perchè perdendo la vita non hanno
perduto nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne è barbaro, e molto
più il rallegrarsene, benchè sia conforme all’esatta ragione. Tutto ciò
conferma quello ch’io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie
(anzi barbarie da se stessa), l’eccesso della ragione sempre; la natura non
mai, perchè finalmente non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.) sicchè
natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser barbara
per essenza.
Alla
p.343. Vedilo ancora sulla fine del Capo 5. da quel passo abbastanza lungo di
Rousseau, Tutto ciò che sento esser bene, [357]è bene, in
poi. Dove l’autore insomma viene a concludere che non esiste legge naturale, o
secondo i Deisti che combatte, o anche, come pare, secondo la propria
persuasione, giacch’egli ne vuol dedurre che non esiste regola di condotta,
esclusa la religione, solo canone dei doveri morali. E nel principio
propriamente del Capo 6. dice, l’uomo ha riconosciuto dovunque ed in
qualunque tempo la distinzione essenziale del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto; e malgrado i vari errori nella estimazione degli atti liberi
considerati come virtuosi o viziosi, non v’ebbe mai alcun popolo che
confondesse le nozioni opposte del delitto e della virtù. Siamo d’accordo.
Così nel bello, tutti hanno la nozione della convenienza, e nessuno ne ha il
tipo. Ma stando così la cosa, le diverse opinioni non si possono chiamare
errori, come voi fate; perchè non esiste il tipo del buono morale; e perchè non
erra quell’etiope che crede la figura della sua nazione, la più perfetta e la
sola bella nel genere umano.
Alla
p.161. I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di quello ch’io dico,
e dimostrano qual fosse l’assunto dei riformatori. Si eressero altari alla Dea
ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all’Assemblea legislativa
ai 21 e 22 Aprile 1792 proponeva l’abolizione e proscrizione anche della
religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così di
tutte le altre religioni. (Essai sur l’indifférence en matière de religion
Ch.5. presso alla fine, nota) Non parlo del [358]nuovo Calendario, della
festa all’Essere Supremo di Robespierre ec. In somma lo scopo non solo dei
fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque
modo complici della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente
filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango
principalmente per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e
un utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due cose
incompatibili, anzi avere stimato che l’uso intiero, esatto, e universale della
ragione e della filosofia, dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte
della vita e della forza e della felicità di un popolo.
Il
vigore e il ben essere del corpo conferisce alla serenità dell’animo, e la
serenità dell’animo al vigore e al ben essere del corpo. Come per lo contrario
la debolezza o mal essere del corpo, e la tristezza dell’animo. Così la natura
aveva congegnata e ordinata ogni cosa alla più felice condizione dell’uomo.
Alla
p.223. Le dottrine non rimontano mai verso la loro sorgente, e la Riforma
invano si sforzava d’arrestare il corso del fiume che la trascinava, dice l’Essai
sur l’indifférence en matière de religion, a poco più di un terzo del Capo 6.
Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e
perde quando s’allontana da’ suoi principii, e non c’è altro rimedio che
richiamarvela, cosa ben difficile, perchè l’uomo non torna indietro senza
qualche ragione universale, necessaria ec. come sovversioni del globo, o di [359]nazioni,
barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne’ tempi bassi, ec.: ma di
spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e riflessione, non
mai; non essendo possibile che la causa del male, cioè la corruzione, la
ragione, i lumi eccessivi ec. siano anche la causa del rimedio. Del resto la
religion Cattolica non si mantiene meglio delle altre, dopo tanti secoli, se
non per la somma cura dell’antichità, e del conservare lo stato primitivo, e
bandire la novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l. cit. nel
pensiero, a cui questo si riferisce) della costituzione d’Inghilterra custodita
e osservata e protetta e richiamata sempre gelosamente dalla camera.
Alla
p.347. Questa pure è una cagione della gran differenza che passa fra i
letterati e gl’illetterati, e anche fra i letterati di professione, e i
letterati di semplice genio, ornamento, divertimento ec. nel gustare gli
scritti anche i più popolari, e adattati all’intelligenza e al diletto di chicchessia.
L’eloquenza
massimamente giudiziaria, ma anche d’ogni altro genere, consiste in gran parte
nell’appianare le scabrosità, riempiere i voti e le valli, agguagliare la
superficie, e raddrizzare le storture delle cose. E però succede bene spesso che
ascoltando o leggendo un pezzo eloquente tu sei persuaso di una cosa, della
quale da te stesso non ti saresti mai persuaso, e della quale dubiterai forse
nel seguito, o la condannerai; credi fattibile, e facile una cosa, che ti
pareva e tornerà a parerti impossibile [360]o difficile; ti svaniscono
quelle incertezze, quelle difficoltà ec. e tu sei costretto a non vedere e
dimenticare quello che vedevi, a contraddire e condannare te stesso, anzi
sovente a vedere e non vedere, ricordarti e dimenticare nello stesso tempo.
Tale è la proprietà non solo dell’eloquenza che strascina, ma anche di quella
secca eloquenza, fondata sopra uno stretto ragionamento, e una dialettica per
lo più ingannatrice (se non quanto al tutto, almeno quanto alle parti):
eloquenza della quale fra gli antichi sono modelli i così detti Oratori attici,
fra i moderni (parlo almeno degli oratori di professione) forse il solo
Bourdaloue, oratore veramente e propriamente attico, il quale convince l’uomo
di cose non sempre vere, se non altro, non interamente vere.
(27. Nov. 1820.)
Non
eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari.
Corn. Nep. praef.
Alla
p.329. fine. Nulla Lacedaemoni tam est nobilis vidua quae non ad scenam eat
mercede conducta. Magnis in laudibus totâ fuit Graeciâ, victorem Olympiae
citari. In scenam vero prodire, et populo esse spectaculo, nemini in eisdem
gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia,
atque ab honestate remota ponuntur. Corn. Nep. praef.
(27. Nov. 1820.)
L’uomo
senza la cognizione di una favella, non può concepire l’idea di un numero
determinato. Immaginatevi di contare trenta o quaranta pietre, senz’avere una
denominazione da dare a ciascheduna, vale a dire, una, due, tre, [361] fino
all’ultima denominazione, cioè trenta o quaranta, la quale contiene la somma di
tutte le pietre, e desta un’idea che può essere abbracciata tutta in uno stesso
tempo dall’intelletto e dalla memoria, essendo complessiva ma definita ed
intera. Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete in nessun modo
fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre; perchè quando siete
arrivato all’ultima, per sapere e concepire detta quantità, bisogna che l’intelletto
concepisca, e la memoria abbia presenti in uno stesso momento tutti gl’individui
di essa quantità, la qual cosa è impossibile all’uomo. Neanche giova l’aiuto
dell’occhio, perchè volendo sapere il numero di alcuni oggetti presenti, e non
sapendo contarli, è necessaria la stessa operazione simultanea e individuale
della memoria. E così se tu non sapessi fuorchè una sola denominazione
numerica, e contando non potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta
attenzione vi ponessi, affine di raccogliere progressivamente coll’animo e la
memoria, la somma precisa di queste unità, fino all’ultimo; tu saresti sempre
nello stesso caso. Così se non sapessi altro che due denominazioni ec. Eccetto
una piccolissima quantità, come cinque o sei, che la memoria e l’intelletto può
concepire senza favella, perchè arriva ad aver presenti simultaneamente tutti i
pochi individui di essa quantità. Nello stesso modo e per la stessa ragione [362]i
numeri che rappresentano una quantità troppo grande, come centomila, un milione
e simili, e più, un bilione, non ci destano se non un’idea confusa, quantunque
noi sappiamo benissimo il loro significato, e l’estensione o quantità precisa e
misurata, che comprendono: ma in questo caso non basta sapere interamente il
significato della parola, per concepire l’idea significata (cosa che forse non
accade in altro caso, se non in parole indefinite, o che esprimono idee
indefinite): e ciò perchè l’operazione della mente non si può estendere in un
medesimo tempo sopra tutte le parti di questa quantità, ed abbracciarle e
concepirle chiaramente tutte in una volta, malgrado il soccorso della favella,
il quale non basta quando le parti son troppe. Per parti intendo p. es. le
diecine, o anche le centinaia la somma delle quali, quando può esser concepita
chiaramente ci desta un’idea abbastanza chiara della data quantità, a cagione
dell’abitudine contratta coll’esercizio del discorso, la quale abitudine ci fa
concepir facilmente e prontamente gl’individui compresi in ciascuna diecina. In
genere l’idea precisa del numero, o coll’aiuto della favella o senza, non è mai
istantanea, ma composta di successione, più o meno lunga, più o meno difficile,
secondo la misura della quantità.
L’Essai
sur l’indifférence en matière de Religion, Capo 7. verso la fine, dice, Da una
dottrina indigente nasce un culto indigente al par di essa. Quindi quant’è
maggiore il numero dei dogmi che una setta ha conservato, tanto maggior vita e
pompa e grandezza ha il suo culto. E vedilo in quello che segue perchè fa al
mio proposito. Questa osservazione di fatto si può addurre fra le tante altre
in conferma di quello ch’io dico, che senza illusioni di cui l’uomo sia
persuaso, non c’è vita ne azione, giacchè l’uomo [363]non opera senza
persuasione, e se la persuasone non è illusoria, ma viene dalla ragione, l’uomo
non opera, perchè la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie,
e lo getta nell’indifferenza. La pompa e la vita del culto senza una
persuasione della sua necessità, doverosità, importanza, non ha potuto durare.
Limitate le credenze, allargato il dubbio, allargata la ragione e l’indifferenza,
e la secca speculazione delle cose, il culto è svanito, laddove si mantiene
presso i cattolici, i quali ne conservano tutte le basi, cioè tutti i dogmi, le
credenze ec. tanto relative ad esso culto, quanto generalmente alla Religione.
Se non ch’egli va languendo anche tra noi, sia nel fatto, sia nell’impressione
e l’effetto che produce, e il modo e l’animo con cui è considerato, e veduto o
eseguito: e ciò in proporzione dei progressi dell’incredulità, o diminuzione
della fede, perchè non si può dar gran cura, nè coltivare, nè promuovere, nè
esser molto affetti e toccati, da quello che si considera come poco importante,
e che non è in relazione colla nostra opinione.
I doveri
dipendono dalle credenze; quanti saranno dunque i simboli, tante saranno le
morali... Chi non comprende che dal momento che si rigetta ogni autorità
vivente (dunque la morale determinata deriva dall’autorità [364]non
dalla natura), la regola de’ costumi addiviene tanto variabile e tanto incerta
quanto la regola della fede? Essai ec. poco sotto al luogo citato nel
pensiero precedente.
Ogni
uomo ha diritto di giudicare di per se stesso, e la diversità delle opinioni è
tanto naturale quanto la diversità de’ gusti. Dott.
Midleton (Middleton) Introductory Discourse to a free Enquiry into the
miraculous powers. (Discorso
preliminare alla libera Disquisizione sopra i poteri miracolosi) p.38.
Quegli
stessi che credono grave, o maggiore che non è, ogni leggera malattia che loro
sopravviene, caduti in qualche malattia grave o mortale, la credono leggera, o
minore che non è. E la cagione d’ambedue le cose è la codardia che gli sforza a
temere dove non è timore, e a sperare dove non è speranza.
La
filosofia e la natura de’ tempi e della vita presente s’ha per capital nemica
della Religione, ed è vero. Contuttociò se l’uomo doveva esser filosofo, far
della ragione quell’uso che ora ne fa, conoscere tutto quello che ora conosce,
e generalmente s’egli doveva vivere come ora vive, e se i tempi dovevano essere
quali ora sono, o il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo e
contraddittorio, o bisogna necessariamente ammettere una Religione. Perchè se l’uomo
doveva essere inevitabilmente infelice, come ora accade, ne [365]segue
che al primo nell’ordine degli enti, è meglio il non essere che l’essere, ne
segue che l’uomo non solo non deve amare nè conservare la sua esistenza, ma
distruggerla; in maniera che la sua stessa esistenza rinchiuda non dirò un
germe nè un principio di distruzione, ma quasi una distruzione formale e
completa; ne segue che la vita ripugna alla vita, l’esistenza all’esistenza,
giacchè l’uomo non verrebbe ad esistere se non per cercare di non esistere,
quando conoscesse il suo vero destino. La qual cosa è un’assurdità e una
contraddizione sostanziale e capitale nel sistema della natura. Per lo
contrario se l’uomo non doveva essere quale ora è, se la natura l’aveva fatto
diversamente, se gli aveva opposto ogni possibile ostacolo al conoscere quello
che ha conosciuto e al divenire quello ch’è divenuto, allora dallo stato
presente dell’uomo, e dalle assurdità che ne risultano, non si può dedur nulla
intorno al vero, naturale, primitivo ed immutabile ordine delle cose; come se
un animale si rompe una gamba, non se ne può dedur nulla intorno all’ordine
generale, perchè questo è un inconveniente particolare. Così lo stato presente
dell’uomo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate come una
particolarità indipendente dall’ordine e dal sistema generale e [366]destinato,
e costante, e primordiale. Che se anche non c’è più rimedio per l’uomo, nemmeno
per chi si tagli una gamba, o sia schiacciato da una pietra, c’è più rimedio.
Basta che il male non sia colpa della natura, non derivi necessariamente dall’ordine
delle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come un’eccezione,
un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell’uso del detto sistema.
V. p.370. e 1079. fine.
Hanter frequentare, visitare spesso, aver
familiarità ec. verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare da hant (se
ben mi ricordo) che nelle lingue del nord significa congiungere o darsi
le mani, non potrebbe piuttosto derivare da Žnt‹v? Ma bisognerebbe anche vedere se
quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo verbo greco.
L’idea
di una grave sventura (come anche di qualunque grande e strana mutazione di
cose in bene come in male) che ci sopraggiunga, massimamente improvvisa, non si
può concepire intera, se non altro ne’ primi momenti; anzi è sempre
confusissima, debolissima, oscurissima, e difettosa. Non considero adesso l’impressione
e la sorpresa e il dolore ec. che deve naturalmente oscurar l’anima, e intorpidirla.
Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de’ vostri cari e familiari, anche
preveduta. Il dispiacere, [367]la rimembranza delle relazioni avute con
lui, la novità che introduce nella vostra vita, vale a dire il troncamento di
tutte quelle relazioni, e il dover considerare quella persona in un modo tutto
diverso dal passato, cioè come morta, come incapace di essere amata o
beneficata, di amare e beneficare ec. ec. tutte queste cose che si presentano
in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno
stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne
considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l’estensione nè la
profondità nè la natura della cosa, nè di formarvene un concetto preciso, e restandovi
solamente l’idea in genere e confusamente, non siete capace di pensarvi, nè vi
pensate formalmente, non dirò perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non
sapete pensarvi. E quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi
mutazioni, sieno disgrazie, sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e
non è se non col tempo, che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a
piangere o rallegrarvene separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l’atto
del piangere o rallegrarsi ec. in somma l’espressione toè p‹Jouw cade sempre sopra una parte della cosa, non già sul tutto, perchè l’anima
non è capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo. P.e. nel [368]caso
detto di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per
una tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non
potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante la
prima impressione. Ma finattanto che l’idea o la cosa vi si presenterà tutta
intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non
piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente. E
neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale e
generale della disgrazia intera. (1. Dec. 1820.).
Si suol
dire che la monotonia fa parere i giorni più lunghi. Così è quanto alle parti
del tempo considerate separatamente. Ma quanto al complesso è tutto l’opposto,
perchè un giorno pieno di varietà, terminato che sia ti parrà lunghissimo, anzi
spesso ti avverrà di credere a prima giunta che una cosa fatta, accaduta,
veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di ier o ier l’altro, perchè la
moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e il maggior numero
degli accidenti, accresce l’apparenza del tempo. All’opposto in una vita tutta
uniforme, spesso ti avverrà (e m’è avvenuto) di credere che l’accaduto ieri o
ier l’altro appartenga al giorno d’oggi, o quello di più giorni fa, al giorno
di ieri. E ciò per la ragione contraria, e perchè l’uniformità impiccolisce l’immagine
delle distanze. Così la monotonia [369]prolunga la vita in quanto la
lunghezza è penosa, e l’abbrevia in quanto la lunghezza è piacevole e
desiderata; e la tua vita passata nell’uniformità ti par brevissima e
momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
Non è
forse cosa che tanto promuova l’attività e l’impazienza di ottenere il fine che
si desidera, quanto l’incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l’idea
di non ottenerlo vi attristi. Non già solamente perchè l’incertezza, obbliga
all’azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine
incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior
cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una
grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall’utilità e dal
bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per
questo solo che tu non puoi sopportare quell’incertezza, e che tu spasimi di
liberarti dall’angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che
tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di
non poterlo conseguire. Anche materialmente m’è accaduto più volte di dubitare
se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che [370]mi
premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi consigliava di
riposare perchè la dilazione non faceva alcun danno. Ma io non poteva sostenere
l’incertezza di una cosa che m’importava, laddove se non avessi dubitato non
avrei avuto difficoltà di aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva
pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre
ec. Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi
di non riuscirvi, l’impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del
bisogno, ma ben da vantaggio, e, s’è possibile, tu vieni a capo dell’opera
prima del termine prefisso. (1. Dec. 1820.). V. p.712. capoverso 2.
Alla
p.366. pensiero 1. Perciò coloro che deducono la necessità assoluta della
Religione dallo stato presente dell’uomo, e dalla sua miseria, nihil agunt,
se non provano ancora che questo stato gli era destinato, e ch’egli vivendo
così, segue i suoi destini, e l’ordine assoluto delle cose, non arbitrario.
Perchè anche gli animali, p.e. le formiche, le api, i castori, hanno fra loro
tanta società quanto basta ai loro bisogni o comodi, e non per questo hanno
Religione, o legge di sorta alcuna. Anche gli animali hanno un uso sufficientissimo
di ragione, hanno il principio toè logismoè, il principio di conoscenza innato
in tutti gli esseri viventi, non già nel solo uomo; e non per questo se ne
servono come l’uomo, nè sono infelici. E non è provato che la società, quale
ora è, sia lo stato naturale dell’uomo, [371]come per lo contrario è
provato che l’uomo senza società, non ha per natura o istinto, nessuna idea di
Religione, e non ne ha verun bisogno, tutti i suoi doveri non riguardando che
se stesso, ed avendo il loro immobile fondamento nell’istinto che lo porta ad
amarsi e conservarsi. (2. Dec. 1820.).
Sostengono
come indubitato che l’uomo è perfettibile. Vale a dire ch’egli può perfezionare
se stesso, perfezionar l’opera della natura. Considerate il sistema materiale
del mondo, tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto nell’organizzazione
di un animale appena visibile, quanto nell’ordine degli astri, e voi troverete
da per tutto un artifizio, una sapienza, una maestria tale, che non solamente
non si può perfezionar nulla di quanto la natura ha fatto, non solamente non vi
si può nè aggiungere nè levarne cosa alcuna, nè alterare in nessun modo senza
guastare, ma quando anche noi avessimo quella stessa potenza di fare che ha
avuto la natura, non c’è uomo d’ingegno così sottile e profondo e sublime, che
fosse capace non dico di condurre a termine, ma di concepir solamente un piano
così magistrale, così minuto, così strettamente legato insieme e
corrispondente, così perfetto in ogni menomissima parte, come quello che
vediamo eseguito dalla natura. Io dunque dico all’uomo [372]il quale
asserisce d’essere perfettibile, e di potersi, anzi doversi perfezionare da se:
perfeziona il tuo corpo, la tua notomia, la tua costruzione organica, o almeno
qualche parte di lei: se non puoi questo, almeno immagina un disegno più
perfetto, più completo, più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito
di quello della natura, relativamente alla organizzazione ec. del tuo corpo. L’uomo
si mette a ridere, e confessa che non solo non c’è cosa più perfetta, ma ch’egli
con lunghissimo studio, dal principio del mondo in poi, ancora non è arrivato a
comprenderne interamente tutta la perfezione, e ogni giorno rivela qualche
altra cosa da ammirare, ed accresce la sua maraviglia. Or come dunque non
potendo perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur comprendere tutta la
misura della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare una parte tanto
più nobile, astrusa, e difficile, qual’è lo spirito? Come dunque la natura
tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita e intera in tutto il
resto, e nominatamente nel tuo corpo, è stata così stupida e manchevole e
difettosa nella parte più rilevante di te, in quella parte da cui dipendeva l’uso
di quel tuo corpo così perfetto, e che anche doveva molto influire sugli altri
ordini di enti? Come ti ha lasciato da far tanto in quella parte che più le
doveva premere, non avendoti lasciato nulla da fare in quella che importava
meno, e ch’era subordinata alla prima? Come soprattutto presumi di
perfezionare, non solo il tuo spirito, [373]ma anche l’ordine vastissimo
delle altre cose terrestri, in quanto ha stretta relazione e connessione e
dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie? (2. Dec. 1820.).
La
poesia e la prosa francese si confondono insieme, e la Francia non ha vera
distinzione di prosa e di poesia, non solamente perchè il suo stile poetico non
è distinto dal prosaico, e perch’ella non ha vera lingua poetica, e perchè
anche relativamente alle cose, i suoi poeti (massime moderni) sono più
scrittori, e pensatori e filosofi che poeti, e perchè Voltaire p.e. nell’Enriade,
scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit,
con quella stess’aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco
di parole di frasi di maniere e di sentimenti e sentenze, che adopra nelle sue prose:
non solamente, dico, per tutto questo, ma anche perchè la prosa francese,
oramai è una specie di poesia. Filosofi, oratori, scienziati, scrittori d’ogni
sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti, se non per uno stile
enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente poetico, e
montato principalmente sul tuono lirico. E ciò massimamente è accaduto dopo l’introduzione
de’ poemi in prosa, siano poemi propriamente detti, siano romanzi, opere
descrittive, sentimentali ec. Ma [374]i francesi che si credono i soli
maestri e modelli e conservatori, e zelatori dello scriver classico a’ tempi
moderni, non so in qual classico antico abbiano trovato questo costume, per cui
non si sa essere elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò
così, traslazione e metevrÛa e concitazione di stile, ch’è propria della poesia. (L’eloquenza di
Bossuet, è appunto di questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di
convenzione; e lo stile biblico, e questo gergo forma l’eloquenza e l’eleganza
ordinaria d’ogni sorta di scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non
mai posatezza, non semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè
familiarità distintiva di uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico
quella ch’è propria universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno
scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più
energici dell’antichità, e mi dicano se c’è uomo così cieco che non distingua
subito come quella è prosa non poesia; se ridotta questa prosa in misura,
avrebbe mai niente di comune colla poesia (come accadrebbe nelle loro prose);
se la prosa antica la più elegante, eloquente, energica, consiste, o no, in uno
stile separatissimo dal poetico. Anche i loro scrittori de’ buoni secoli,
sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto, [375]nondimeno
hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e più distinto (eccetto
pochi), hanno non dico austerità, neanche gravità nè verecondia (pregi ignoti
ai francesi) ma pur tanta posatezza e castigatezza di stile quanta è
indispensabile alla prosa: come la Sévigné, Mme Lambert, Racine e Boileau nelle
prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e pensatori
moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
La
ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve
l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente
liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo
la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della
natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è
proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò
appunto che non è naturale, nè proprio dell’uomo primitivo.
Spesso
gli uomini irresoluti, preso che hanno un partito, sono costantissimi nel
mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltà, appunto per irresoluzione, e
perchè non si sanno risolvere a lasciar quello, e prenderne un altro; perchè
ciò par loro più difficoltoso; perchè si spaventano di tornare un’altra volta a
risolvere. Forse questo effetto accade principalmente in quelli che sono
irresoluti per infingardaggine, e che trovano più infingardo [376]e
facile il proseguire che il tornare indietro. Ma è comune, s’io non erro, a
tutti gl’irresoluti.
L’Essai
sur l’indifférence en matière de religion, prima o seconda pagina del Capo 9.
Ed è rimarcabile che tutti gli uomini... uniscono costantemente all’idea della
felicità, l’idea del riposo, che non è altro fuorchè quella pace profonda,
inalterabile, di cui gode necessariamente un essere pervenuto alla sua
perfezione, e che S. Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità dell’ordine...
In una parola non si trova felicità fuorchè nel seno dell’ordine; e l’ordine è
la sorgente del bene, come il disordine è la sorgente del male, tanto nel mondo
morale, quanto nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto per gl’Individui. L’amore
dell’ordine, o l’idea della necessità dell’ordine, che è quanto dire dell’armonia
e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento del
raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero. Ma l’idea
di un tal ordine, è variabile, dipendente dall’abitudine, opinione, ec. è
relativa, e particolare. Il desiderio del riposo, non è in quanto riposo, o
quiete, ma 1. in quanto convenienza, armonia ec. colle qualità e la natura
della specie o dell’individuo. 2. in quanto stabilità, o capacità di durare. L’uomo
e nessun altro essere, non può trovar bene se non se in [377]uno stato
che armonizzi colle sue qualità e natura. Senza questo stato, egli è in una
condizione di contrasto, di sconvenienza, e perciò travaglioso, non per l’assenza
della quiete assolutamente, ma dell’armonia relativa. Se alla sua natura
convenisse la guerra, il moto perpetuo, l’azione continua, egli sarebbe in
istato di pena, e violento, quando fosse costretto al riposo propriamente
detto, e non riposerebbe, vale a dire, non troverebbe felicità, se non che
nella guerra o fatica. Il riposo e la pace per lui sarebbe disordine, e la
fatica e la guerra ordine. Sicchè il riposo che noi desideriamo, non è riposo o
quiete assolutamente, ma armonia colla nostra natura tanto specifica, quanto
individuale. Così diremo della stabilità, perchè quello che contrasta colla
nostra natura, se anche ha l’atto della durata, non ha la potenza o il diritto,
cosicchè l’uomo non ci può trovar quiete. Al contrario nel caso opposto. Ma
questa quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse essenzialmente e
primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire armonia. Non
bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative, nè
pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine, perciò
che amiamo l’ordine. Amiamo l’ordine, l’amano tutti gli esseri; ma qual ordine?
Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò bisogna [378]cercare,
qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal principio antecedente,
incontrastabile e confessato, invano si presume di ricavar nulla di definito e
concreto, circa la questione, dello stato e perfezione destinata
particolarmente all’uomo, e desiderata da lui ardentemente. Io dico dunque: lo
stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale non c’è riposo,
fuor del quale non c’è la tranquillità dell’ordine, nè la felicità, è per l’uomo,
come per tutte le altre cose esistenti, quello stato in cui la natura l’ha
posto di sua propria mano, e non quello in cui egli o si sia posto, o si debba
porre da se.
Il Capo
9. dell’Essai ec. qui sopra citato è il più forte profondo e concludente forse
di tutta l’opera, perchè le prove della Religione non sono dedotte dalla
considerazione dell’uomo qual egli è, dalle opinioni ec. ma dalla natura dell’uomo.
Farai bene a rileggerlo. Ma ecco il suo raziocinio. La felicità non si trova se
non nella perfezione di cui l’essere è capace. Un essere non è perfetto se le
sue facoltà non sono perfettamente d’accordo fra loro, perfettamente sviluppate
secondo la loro natura, e se non godono ciascuna del suo proprio oggetto
secondo tutta l’estensione della sua capacità. Non è perfetto s’egli non è in
conformità colle leggi che risultano dalla sua natura. Ma per conformarcisi [379]bisogna
conoscerle. Dunque l’uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso, e i
rapporti necessari che ha con altri esseri. E deve poterli conoscere, altrimenti
sarebbe un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o
la felicità, non avrebbe alcun mezzo di pervenirvi. L’uomo dunque
inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla cognizione del
vero. Dalla cognizione deriva l’amore o l’odio, ossia il giudizio relativo alla
qualità buona o cattiva. Dall’amore o l’odio deriva l’azione, perchè l’uomo non
si può determinare se non a quello che crede bene. L’ignoranza assoluta è uno
stato di morte, perchè, supponendo che l’uomo non abbia un motivo per creder le
cose buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare nè
odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque non può vivere. Sicchè
conoscere, amare, operare; ecco tutto l’uomo. L’oggetto della facoltà di
conoscere, è la verità. L’estensione di questa facoltà si misura dal desiderio.
L’uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di amare. Dunque la sua
facoltà conoscitiva, o l’intelligenza è capace di conoscere la verità infinita;
la sua facoltà di amare, è capace di amare il Bene infinito. Laddove la sua
facoltà di agire essendo limitata, egli non sente un desiderio infinito di
agire, come essere fisico. Dunque la felicità dell’uomo [380]consiste
nella perfezione della conoscenza; dell’amore, o sia disposizione dell’anima
verso gli oggetti; e dell’azione che deriva da questi due principii. Dunque
consiste nel vero: perchè 1. l’ignoranza assoluta è lo stesso che mancanza
intera di cognizione, amore, e azione. 2. l’errore ingannandolo sui suoi
rapporti, e sull’accordo e sviluppo delle sue facoltà, contraddice alla
perfezione, ossia distrugge l’armonia dell’uomo e delle sue facoltà colle leggi
che risultano dalla sua natura, e quindi distrugge la sua felicità. Ecco l’argomentazione.
Ecco le risposte.
Primieramente
quanto alla verità, che cosa si debba intendere per verità, rispetto alla
felicità dell’uomo, e per conseguenza qual sia il fine e lo scopo e l’oggetto vero della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente esposto p.326. di questi
pensieri, capoverso 1. Quello solo basterebbe a rispondere a tutto questo
raziocinio.
Secondariamente,
qual sia l’ordine, la perfezione l’accordo delle facoltà dell’uomo, la sua
corrispondenza co’ suoi rapporti, e colle leggi che risultano dalla sua natura,
vedilo p.376-378. donde rileverai che questo principio astratto, benchè vero, e
confessato, non ha forza di provar nulla nella questione delle vere leggi, dei
veri rapporti, e della vera natura particolare dell’uomo.
Veniamo
al desiderio di conoscere. Certamente bisogna che l’uomo conosca, cioè si possa
determinare, perch’egli è libero. Così accade anche al bruto. [381]Bisogna
che conosca bene per determinarsi bene. Dunque bisogna che conosca il vero,
e l’errore toglie la sua felicità. Falsa conseguenza. Bisogna che conosca
quello che fa per lui. La verità assoluta, e per così dire il tipo della
verità, è indifferente per l’uomo. La sua felicità può consistere nella
cognizione e giudizio vero o falso. Il necessario è che questo giudizio,
convenga veramente alla sua natura.
La
facoltà di formare questo giudizio non manca all’uomo ignorante, perchè tutto
quello ch’egli deve sapere gli è insegnato dalla natura. Bisogna esser bene
stupido per ammetter l’ipotesi di un’ignoranza che lasci l’uomo nell’intera
indifferenza, come quell’asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e
moventi d’un modo, il quale si morria di fame. L’ignorante ignora il
vero, ma non i motivi di determinarsi. Anzi l’ignorante naturale, come il
fanciullo, si determina molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente
e certamente dell’uomo istruito o saggio. Di più le stesse cose per natura loro
indifferenti all’uomo, per poco che abbia perduto della natura, quelle cose che
non possono essere oggetti di azione, come piante, sassi, e che so io, non sono
indifferenti all’uomo primitivo nè al fanciullo, il quale da piccolissime
minuzie, cava argomento di amarle o di odiarle, e trova notabili benchè
immaginarie differenze, nelle cose più[382]indifferenti, ed
esagera e ingrandisce le piccole differenze reali: sicchè non gli manca ma
motivo di determinazione. Anzi la ragione e la scienza è indifferentissima, e
la natura e l’ignoranza è tutto l’opposto dell’indifferenza. (V. il mio
discorso sui romantici, e la p.69. di questi pensieri, capoverso 3.) Perchè l’immaginazione
e l’errore dà molto più peso alle minuzie, che la ragione, e non ammette nè
dubbi, nè freddezze nella stessa certezza, come la ragione che conosce la poca
importanza di tutto, e perciò la poca differenza dell’utilità o bontà
rispettiva. Oltracciò la ragione e la scienza, tende evidentemente ad
agguagliare il mondo sotto ogni rispetto, ed estinguere o scemare la varietà,
perchè non c’è cosa più uniforme della ragione, nè più varia della natura; e
così la scienza promuove sommamente l’indifferenza, perchè toglie o scema anche
le differenze reali, e quindi i motivi di determinazione.
E quanto
al dubbio, cagione principalissima d’indifferenza, lo stesso libro ch’io
discuto reca un passo di Pascal, dove fra le altre cose (degne d’esser lette)
si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si collochi
necessariamente o al dogmatismo, o al pirronismo... Sostengo che non ha mai
esistito un pirronista effettivo e perfetto. La natura sostiene la ragione
impotente, e l’impedisce di delirare fino a questo punto... [383]La
natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde i dogmatizzanti (vale a
dire quelli che ammettono e sostengono delle opinioni come certe). (Pensées de
Pascal, Ch.21) Infatti il dubbio non ha quasi esistito se non dopo la ragione e
la scienza, e non c’è cosa così sicura in quello che crede come l’ignoranza; e
l’uomo naturale, tutto quello che sa o crede sapere (e ciò per dettato della
natura), lo tiene per certissimo e non ci prova ombra di dubbio. Tanto è vero
che l’ignoranza conduce alla totale indifferenza, e quindi all’inazione e alla
morte: o piuttosto tanto è vero che si dia un’ignoranza assoluta, ossia uno
stato dell’anima privo affatto di credenza, e di giudizi: tanto è stolto il
confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei giudizi, quasi non si
dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio risultasse la
necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un giudizio veramente utile e adattato alla natura dell’uomo.
Quanto
al desiderio che ha l’uomo di conoscere, desiderio che si pretende infinito,
come quello di amare, e a differenza di quello di operare
1° Non è
vero ch’egli sia infinito per se, ma solo materialmente, e come desiderio del
piacere, ch’è tutt’uno coll’amor proprio. E non è vero che l’uomo [384]naturale
sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere. Neanche l’uomo
corrotto e moderno si trova in questo caso. Egli è tormentato da un desiderio
infinito del piacere. Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni,
perchè quando non si sente, non si prova nè piacere nè dispiacere. Le
sensazioni non le prova il corpo, ma l’anima, qualunque cosa s’intenda per
anima. La sensazione dell’intelligenza, è il concepire. Dunque l’oggetto della
facoltà intellettiva, è il concepire. (non il vero, come dirò poi.) L’uomo
desidera un piacere infinito in tutte le cose, ma non può provare una certa
infinità, se non se nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato. V.
la pag.388. di questi pensieri, fine. L’uomo dunque prova piacere nella maggior
estensione possibile della concezione, ossia dell’atto della facoltà
intellettiva. V. questi pensieri p.170. fine, e p.178. fine - 179. principio.
Questo è indipendente dal vero. L’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire
infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in
qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o
cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l’infinito.
E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità, o desiderio di
conoscere, o piuttosto di concepire, [385]derivi [non] da una determinazione
arbitraria della natura, a fare che il conoscere o concepire sia piacere, ma da
questo stesso, che l’uomo desidera illimitatamente il piacere, contro quello
che ho inclinato a credere nella teoria del piacere. Del resto questo desiderio
infinito di concepire, dev’essere essenzialmente comune anche ai bruti. V.
p.180. fine.
2° E
tanto è miser l’uomo quant’ei si reputa, e tanto è beato quant’ei si
reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla
credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è
totalmente indifferente all’uomo anche per questo capo. Anzi il desiderio
infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato dalla
natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni false ossiano errori;
ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi col mezzo degli
oggetti reali. Che se l’uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire,
ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perchè la natura avrebbe posto
tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? Perchè avrebbe
radicate nella sua mente tante illusioni che appena il sommo incivilimento, e
abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto? Perchè la verità sarebbe
così difficile a scoprire? Da che l’uomo tende infinitamente alla precisa
cognizione, nessuna verità è indifferente per lui. [386]Non solo la
cognizione delle verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica ec.
ec. diviene necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia supporre
che l’uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità religiose
e morali, (come par che supponga il nostro libro) è certo che non gli ebbe per
infinite altre, è certo che infinite se ne ignorano ancora, che infinite se ne
ignoreranno sempre, che la massima parte degli uomini è (tolto nella religione
rivelata) ignorante quanto i primitivi, che i fanciulli lo sono parimente,
anche quanto alla religione. È certo che quantunque l’uomo conosca Dio ch’è
infinito, non lo conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare,
quantunque l’autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita,
essendo infinito il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua
cognizione non è infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita,
manca del suo oggetto, e perciò della sua felicità. Dunque l’uomo non può esser
felice: dunque ripeterò coll’autore egli è un essere contraddittorio, perchè
avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi. E le illusioni che la natura ha poste saldissimamente in tutti noi,
perchè ce le ha poste? Per contendergli espressamente la sua felicità? E se l’ignoranza
è infelicità, perchè l’uomo esce dalle mani della natura, così strettamente
infelice? In somma [387]le assurdità sono infinite quando non si vuol
riconoscere che l’uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le
altre cose; che la verità assoluta è indifferente all’uomo (quanto al bene, ma
non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà
intellettiva, non è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà,
ma la concezione, o l’opinione di conoscere, sia vera, sia falsa. Che vuol dire
che gl’ignoranti in luogo di esser più infelici, sono evidentemente i più
felici?
Posti
questi principii,
dice l’autore, (cioè i sovresposti p.378-380.) consideriamo la filosofia e
la Religione ne’ loro rapporti colla felicità. E segue mostrando che la
filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè il dubbio, tanto ne’ principii
o nelle verità, quanto ne’ doveri: e la Religione tutto l’opposto. Siamo d’accordo,
ma la natura? l’avete dimenticata? Non c’è altra maestra che la filosofia o la
religione? tutte due ascitizie e non inerenti alla natura dell’uomo. Laddove tutti
gli altri esser viventi, che hanno lo stesso desiderio infinito della felicità,
ne hanno la maestra, gl’insegnamenti, e i mezzi in se stessi. La natura non
insegna nulla? non prescrive nulla? Concedo la vostra definizione della
felicità, ammetto le facoltà dell’uomo che voi ammettere, dico che debbono
esser d’accordo [388]fra loro, d’accordo colle leggi che risultano dalla
loro natura, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, godere del loro
oggetto secondo la loro natura. I principii son veri, l’applicazione è falsa.
Voi continuate a stare sull’assoluto invece di passare al relativo. Cioè, la
natura dell’uomo non è quella che voi dite. Del resto so anch’io che la
filosofia è più contraria alla natura che la religione, ma non ne segue che non
ci siano altri insegnamenti se non della Religione o della filosofia, che non
ci siano altre cognizioni, altri amori, altre azioni, cioè quelli che la natura
ci ha ispirati e dettati; nè molto meno che questi non sieno analoghi alle
nostre facoltà, ed alle leggi della nostra natura; nè che l’uomo naturale sia
infelice ec. ec. ec. e che le leggi della nostra natura non sieno quelle della
nostra natura. Convien conoscerle, dic’egli, per conformarcisi. E io dico che l’uomo
le conosce dal suo nascere, e dovea necessariamente conoscerle per non essere
un ente contraddittorio, e bisognoso per esser felice, di cose che non possiede
essenzialmente e primordialmente, al contrario di tutti gli altri enti.
Alla
p.384. Così il desiderio che ha l’uomo di amare, è infinito non per altro se
non perchè l’uomo si ama di un amore senza limiti. E conseguentemente desidera
di trovare [389]oggetti che gli piacciano, di trovare il buono
(intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta gradevolmente
qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare, ossia di
determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo desidera senza confini,
tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della
loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è desiderio innato, inerente,
indivisibile dalla natura non solo dell’uomo, ma di ogni altro vivente, perchè
è necessaria conseguenza dell’amor proprio, il quale è necessaria conseguenza
della vita. Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita nell’uomo: e così
il desiderio infinito di conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere
sia infinita: prova solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito.
E infatti come si potrà dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia
infinita? - Ma noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo. Bisognerebbe
che lo potessimo conoscere infinitamente ed amare infinitamente. Allora la
conseguenza sarebbe in regola. Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non
imperfettissimamente. Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè
cadano sopra un Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai [390]essere.
Dunque le nostre facoltà di conoscere e di amare sono essenzialmente ed
effettivamente limitate come la facoltà di agire fisicamente, perchè non sono
capaci nè di cognizione nè di amore infinito, nè in numero nè in misura, come
non siamo capaci di azione infinita fisica. (E se noi avessimo delle facoltà
precisamente infinite, la nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio). Dunque
il nostro desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non può
esser mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di
conoscere e di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è
infinito, e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non
sarebbe infinita): ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o false
concezioni, o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di possesso e
godimento) e dalle distrazioni ovvero occupazioni (v. p.168. 172-173.175. ivi,
fine-176. principio): due grandi istrumenti adoperati dalla natura per la
nostra felicità. (8. Dicembre. 1820.).
L’immaginarsi
di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una
conseguenza naturale dell’amor proprio necessariamente coesistente con noi, e
necessariamente illimitato. Onde è naturale che ciascuna specie d’animali s’immagini,
se non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente la stessa cosa.
Questo accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie. Ma
proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl’individui, riguardo, non solo
alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima specie.
[391]Il bene non è assoluto ma relativo.
Non è assoluto nè primariamente o assolutamente nè secondariamente o
relativamente. Non assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt’altra
da quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura tal qual
esiste, quello ch’è bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è
male per questa è bene per quell’altra, cioè gli conviene. La convenienza è
quella che costituisce il bene. L’idea astratta della convenienza si può
credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque ordine e
natura. Ma l’idea concreta di essa convenienza è relativa. Non si può dunque
dire che un essere sia più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior
quantità o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto
conviene alla natura degli esseri rispettivi. Solamente, questo si può dire
degl’individui rispetto agli altri individui della stessa specie. Ogni specie
dunque, ed ogni individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è
perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci
perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più
perfetta di un’altra) possiede tutto il bene che è bene per [392]lui,
perchè il resto non sarebbe bene: è tanto buono quanto può essere, perchè per
lui non c’è buono fuori della sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui
cattivo, perchè non c’è bene assoluto. Tutto ciò tanto nel fisico che nel
morale. (8. Dicembre. 1820.). Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano
se non erro) dell’Ottimismo.
Oltre il
progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari tanto
nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello scrivere e della
poesia ridotti ad arte ec. un’altra gran cagione dell’estinguersi che fece
subitamente l’originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura
italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la
nascita di essa letteratura, può essere l’estinzione della libertà, e il
passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo
spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi
alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in Italia e fuori,
quanto al governo. E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento,
sotto Cosimo e Lorenzo de’ Medici fondatori della monarchia toscana e
distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon
X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da quella
del trecento, e (quel che è più) da quella che sogliono sempre prendere nel
loro risorgimento [393]o nascere. La letteratura italiana non è stata
più propriamente originale e inventiva. L’Alfieri è un’eccezione, dovuta al suo
spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de’ governi sotto
cui visse. (8. Dicembre. 1820.).
A quello
che ho detto p.175. fine- 176. principio, riferisci quello che ho detto p.153.
capoverso primo. I fanciulli parlano ad alta voce da se delle cose che faranno,
delle speranze che hanno, si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o
che loro sono accadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad
alta voce le cose che fanno, e non v’è per loro tanta solitudine ed inazione
materiale, che non sia piena società conversazione, ed azione spirituale;
società ed azione non languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al
vero, accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d’ogni sorta, durevole ed
inesauribile.
Il mio
sistema intorno alle cose ed agli uomini, e l’attribuir ch’io fo tutto o quasi
tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla ragione, ossia all’opera dell’uomo
o della creatura, non si oppone al Cristianesimo.
1° La
natura è lo stesso che Dio. Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a
Dio: quanto più tolgo alla ragione, tanto più alla creatura. Quanto più [394]esalto
e predico la natura, tanto più Dio. Stimando perfetta l’opera della natura,
stimo perfetta quella di Dio; condanno la presunzione dell’uomo di perfezionar
egli l’opera del creatore; asserisco che qualunque alterazione fatta all’opera
tal qual è uscita dalle mani di Dio non può esser altro che corruzione. Laddove
coloro che si credono più amici della religione; attribuendo tutto o quasi
tutto alla ragione, fanno dipendere la massima e principal parte dell’ordine
umano ed universale, dalle facoltà della creatura. Sostenendo la perfettibilità
dell’uomo, sostengono che l’opera della natura, cioè di Dio, era imperfetta;
che l’uomo può essere perfezionato non già da Dio, ma da se stesso; che per conseguenza
la perfezione o felicità della prima delle creature terrestri derivi e debba
derivare da essa e non da Dio.
2° Io
ammetto anzi sostengo la corruzione dell’uomo, e il suo decadimento dallo stato
primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo. S’io dico che l’uomo
fu corrotto dall’abuso della ragione, dal sapere, e dalla società, questi sono
i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa
originale non sia stata il peccato. Io non credo che nessuna vera e soda ragion
di fede provi la scienza infusa in Adamo. S’egli ebbe subito un linguaggio, si
può stimare, ed è ben verosimile che n’abbiano anche le bestie per servire a [395]quella
tal società di cui abbisognano; a quella che sarebbe convenuta anche all’uomo
nello stato primitivo, come conviene alle bestie che sono ancora in esso stato;
a quella che Dio volle indicare (e non altro) quando disse: Non est bonum
esse hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi (Gen. 2.18.); a
quella della quale ho detto bastantemente altrove. E contuttociò le bestie non
hanno scienza infusa, e dalla Genesi non risulta niente di questo, riguardo ad
Adamo, anzi il contrario. Giacchè qualunque cosa si voglia intendere per l’albero
della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede
all’uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Gen. c.2.
v.8.15.23.24.) (s’intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol
sostenere, che all’uomo non sia destinata naturalmente se non se una felicità
spirituale e d’un’altra vita), fu De ligno autem scientiae honi et mali ne
comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Gen.
2.17.). Non è questo un interdir chiaramente all’uomo il sapere? un voler porre
soprattutte le altre cose (giacchè questo fu il solo comando o divieto) un
ostacolo agl’incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per
sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione [396]di
quella tal creatura, tal quale egli l’aveva fatta, e in quanto era così fatta?
Il serpente disse alla donna Scit enim Deus quod in quocumque die
comederitis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum
et malum. (Gen. 3.5.) In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre
la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era
destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s’egli avrebbe saputo
contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione,
in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la felicità
umana: fu appunto il vedere s’egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità
che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le
opponesse, cioè quello della ragione e del sapere. Questa fu la prova a cui Dio
volle assoggettar l’uomo, se bene lo fece in un modo o materiale, o misterioso.
Di che cosa poi si trattava [?] È egli assurdo o cattivo per sua natura il
desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che in somma è quanto
dire la cognizione) Secondo voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all’autor
della Religione parve che fosse, perchè l’uomo già sapeva abbastanza per
natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli
conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non [397]più
per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli
conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e
quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione,
scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si
scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri
rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere
quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un’opera
propria, cioè la ragione, in luogo dell’istinto, ch’era un mezzo e un’azione
immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato
precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri
finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata
questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro
superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione,
parlando assolutamente, non male adoperata, giacchè non cercava se non la
scienza del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e superbia.
Condannato ch’ebbe la donna e l’uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex
nobis factus [398]est, sciens bonum et malum. (Gen. 3.22.) E
non aggiunse altro in questo proposito. Dunque egli non tolse alla ragione
umana quell’incremento che l’uomo indebitamente gli aveva proccurato. Dunque l’uomo
restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando
era stato creato. Dunque il decadimento dell’uomo, non consistè nel decadimento
della ragione, anzi nell’incremento. V. p.433. capoverso 1. E sebben l’uomo
ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè la
scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità, anzi la
distrusse. Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati
ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito
bene inteso della narrazione Mosaica, e se ne può efficacemente concludere che
lo spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione e
decadenza dell’uomo all’aumento della sua ragione, e all’acquisto della
sapienza; considerar come corruttrice dell’uomo la ragione e il sapere: cioè
come mezzi espressi di corruzione, perchè la causa primaria fu la
disubbidienza, ma la disubbidienza a un divieto che proibiva appunto all’uomo
di proccurarsi e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione e d’infelicità.